10 domande di Corrado Morgia a Paolo Ciofi

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17 Novembre 2023
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di Corrado Morgia

10 domande a Paolo Ciofi
10 domande a Paolo Ciofi

10 DOMANDE. Prima. Tu provieni da una famiglia di comunisti, tuo padre infatti era un dirigente del Pci. Questa condizione ha facilitato la tua adesione al partito? E comunque quali sono stati i motivi principali che ti hanno spinto alla militanza?

«I princìpi di libertà e di giustizia sono sempre stati fondamentali in famiglia. E questo sicuramente ha facilitato la mia adesione al Pci. Mio padre, che aveva partecipato alla seconda guerra mondiale su vari fronti, si iscrisse al partito in una cellula organizzata dai prigionieri italiani nel campo di concentramento ad El Alamein dopo la vittoria degli inglesi. Io, seguendo quei principi di libertà e giustizia, ho aderito alla Federazione giovanile comunista e al Pci negli anni cinquanta: anni bui di povertà, ignoranza e repressione anticomunista. Era il tempo in cui il ministro degli Interni Scelba sosteneva che la Costituzione è «una trappola». E la mia professoressa di storia al liceo mi domandava se quel tale di nome Engels fosse un critico della nouvelle vague.»

Seconda. Non era facile essere comunisti in Italia, e in genere nel mondo occidentale a quell’epoca. La rottura della grande alleanza antifascista che aveva sconfitto il nazismo nella seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda avevano scatenato la caccia al comunista ed era inoltre incombente il pericolo di un terzo e catastrofico conflitto planetario. Cosa ricordi di quel periodo, anche in relazione alle lotte per la pace e contro l’adesione dell’Italia alla Nato?

«Ricordo le grandi manifestazioni per la pace al grido di “Iké Iké la guerra la fai te” contro il generale Eisenhower. E anche gli scontri con i fascisti, che portavano in piazza gli studenti sotto la bandiera di Trieste italiana per poi spingerli all’assalto della Direzione del Pci in via Botteghe Oscure o alla sede dell’Unità in via Quattro Novembre.
In quel tempo, agli inizi degli anni 50, avevo organizzato cellule di giovani comunisti al liceo Mamiani e al Virgilio, dove stampavamo e diffondevamo il giornale d’istituto “Avanguardia”. Insieme agli studenti di sinistra di Napoli e altre città demmo vita all’Associazione nazionale studenti medi. Ero uno dei promotori delle frequenti manifestazioni contro la Nato, e come scendevo in piazza venivo regolarmente fermato dalla polizia. Fui arrestato a Roma dentro il teatro dell’Opera, dove con un lancio di volantini, applausi e grida interrompemmo e facemmo cancellare lo spettacolo in onore del ministro degli esteri greco Venizelos, uno degli assassini dell’eroe Belojannis.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Terza. Tu hai compiuto studi universitari a Mosca, dopo il ciclo scolastico frequentato a Roma. L’Unione Sovietica stava attraversando la fase di passaggio dall’era staliniana a quella brezneviana, periodo difficile e complesso, in cui prima la direzione di Malenkov e successivamente quella di Krusciov avevano suscitato attese e speranze di rinnovamento, reso peraltro difficoltoso dal persistere di minacce imperialistiche, ma anche da una certa estemporaneità di alcune scelte dello stesso Krusciov, sul quale, come sappiamo, il giudizio di Togliatti, almeno per alcuni aspetti, non era benevolo. Cosa ricordi di quella fase? Quale è oggi il tuo giudizio?

«Krusciov denunciò le malefatte e i delitti di Stalin soffermandosi soprattutto sulle sue caratteristiche personali. Ma non approfondì le cause di fondo, economico-sociali e politiche che produssero lo stalinismo, come osservò Togliatti. Un’analisi superficiale, che di fatto ostacolò fino a renderlo impossibile un progetto di grandi riforme del sistema su tutti i terreni, come sarebbe stato necessario per evitare che il sistema implodesse. Ricordo che quando fu diffuso il cosiddetto “Rapporto segreto” di Krusciov all’Università di Mosca sui Monti Lenin, dove studiavo, scoppiò tra tante proteste anche una rivolta degli studenti stranieri, alimentata soprattutto dai polacchi. Noi italiani non partecipammo e ci riunimmo più volte con i cinesi e i vietnamiti per cercare di capire il senso dell’operazione fatta da Krusciov, e cosa stava succedendo non solo all’università ma più in generale nel Paese. Dove, come è noto, la scelta di Krusciov fu accolta in modo controverso.
Sulla condizione in cui si viveva a Mosca fu per me decisiva la prova del rasoio elettrico. Mi spiego. Avevo finito le lamette italiane e quelle russe mi insanguinavano la faccia. Decisi perciò di comprare un rasoio elettrico in bella mostra in una vetrina della via Gorkij. Ma una severa commessa mi disse bruscamente di no. Mi mancavano le due condizioni essenziali per poterlo fare: i dollari o la tessera del Pcus. Rimasi di sasso, e per la prima volta mi resi conto che il partito era diventato una casta al di sopra dei cittadini sottomessi. Una condizione che ha concorso in modo decisivo alla crisi del sistema.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Quarta Come e perché sei arrivato a Mosca, quando non era facile nemmeno ottenere il passaporto? Quale Istituto hai frequentato? Quale era il tuo piano di studi e chi erano i tuoi docenti? Quali conoscenze hai fatto tra gli allievi e nell’apparato comunista sovietico che ti è capitato di incontrare e quanti anni sei rimasto in Urss?

«Fu Edoardo D’Onofrio, Edo, il capo storico dei comunisti romani a propormi l’Università di Mosca. Io, allora iscritto alla Federazione giovanile comunista e al Pci, accolsi con entusiasmo l’idea di poter studiare nel Paese che aveva fatto la rivoluzione. Poiché non mi rilasciavano il passaporto a causa dei cosiddetti “carichi pendenti” espatriai clandestinamente, scavalcando a piedi, d’inverno e in mezzo alla neve, la rete di confine tra Italia e Svizzera. Qui, in un paesino a poca distanza dal confine, mi consegnarono un documento intestato a Mario Candiani con la fotografia del mio compagno di viaggio. Io mi fermai in attesa di un altro passaporto. Lui invece, occhialuto e molto diverso da me, non si accorse di nulla. Nella fretta tirò dritto e arrivò a Mosca, superando i confini esibendo il passaporto con la mia foto. Evidentemente la vigilanza rivoluzionaria aveva chiuso un occhio. Anzi, due.
In quel paesino svizzero di cui non ricordo il nome passai la notte su una panchina della stazione senza documenti. Che finalmente mi vennero portati da Milano il giorno dopo per intervento del compagno Cossutta. Così arrivai a Vienna, allora divisa in quattro zone. In quella controllata dai sovietici presi il treno che dopo qualche giorno, attraverso l’Ucraina, mi portò a destinazione.
A Mosca ho frequentato la Facoltà di economia dell’Università di Stato Lomonosov secondo il piano di studi sovietico, che non veniva riconosciuto in Italia e prevedeva l’approfondimento del pensiero di Marx, Engels, Lenin e Stalin oltre all’analisi della società e delle tendenze dell’economia del Paese. Il tutto in lingua russa, una lingua molto ricca che imparai dopo un corso accelerato di tre mesi. Ciò mi permise poi, nel 1957, di fare il traduttore simultaneo nell’ultima conferenza mondiale dei partiti comunisti, alla quale parteciparono anche Togliatti e Mao.
Con i compagni di Università e con Popov, che ci seguiva per conto del Pcus, i rapporti erano ottimi. Tra i russi e noi italiani c’è sempre stata una corrente di simpatia.»

Quinta. Come era cambiato il nostro paese quando sei rientrato in e che tipo di partito hai trovato al tuo ritorno?

«Il Paese si stava avviando verso un’inedita espansione dell’economia e della società: il “miracolo italiano”, sospinto da una forte crescita dei consumi. Il partito cercava di radicarsi nelle diverse categorie sociali, peraltro in continua mutazione specialmente in una città come Roma. Era un periodo di grandi cambiamenti quando mi fu affidato l’incarico di responsabile “erbe e frutta”, come lo definivano allora. Cioè del mercato Campo de’ Fiori, nell’ambito del settore ceti medi. Fu quello il mio primo incarico di “rivoluzionario di professione”.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Sesta Come hai vissuto la scelta di diventare funzionario di partito, o meglio “rivoluzionario di professione”, come appunto si diceva allora e soprattutto risultarono utili gli studi compiuti?

«L’ho vissuta In modo del tutto normale, come conseguenza logica e naturale della volontà di lottare per la realizzazione degli ideali del comunismo: l’uguaglianza, la libertà, la giustizia sociale. E così mi lasciai dietro le spalle, senza alcun rimpianto, la possibilità che mi era stata offerta di diventare un riccastro al servizio del sistema come addetto commerciale dell’ambasciata italiana a Mosca. E anche, in alternativa, la prospettiva di intraprendere la carriera di accademico dell’Urss. Sebbene, tornando in Italia, rischiassi di finire in galera per espatrio clandestino e renitenza alla leva. Cosa che poi evitai grazie all’efficace difesa che mi offrì l’avvocato Fiore, e anche per la decisione del governo italiano di non avere pendenze con l’Urss in occasione del primo viaggio in quel Paese di un presidente italiano, il prof. Giovanni Gronchi.
Quanto agli studi, credo che mi sia stato utile soprattutto lo studio del Capitale, delle altre opere di Karl Marx e anche di quelle di Lenin. Senza trascurare la conoscenza abbastanza approfondita di quel grande Paese.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Settima Hai lavorato come segretario di Federazione a Latina e a Roma, come segretario regionale, come vice-presidente di regione e parlamentare. Inoltre, presso la Direzione del PCI, sei stato coordinatore del Dipartimento economico diretto da Gerardo Chiaromonte e Alfredo Reichlin. Si tratta di un lungo periodo, in cui naturalmente è possibile distinguere varie fasi in cui il nostro partito ha conosciuto grandi successi, crescita di voti e di iscritti, responsabilità amministrative a vari livelli, a cominciare dalla conquista del comune di Roma, sfiorando anche l’ingresso nel governo nazionale. Poi sono venute anche le difficoltà, ma anche nuovi successi, come alle europee dell’84, dopo la morte di Enrico Berlinguer. Come ricostruisci questo percorso?

«Non c’è dubbio che si è trattato di un percorso difficile e contrastato. Sempre di un percorso di lotta, seppure in fasi e con modalità diverse. Sono stato segretario della Federazione di Latina, su proposta di Enrico Berlinguer, dal 1966 al 1969. Gli anni in cui il Pci, in una provincia tradizionalmente difficile e coinvolta in grandi trasformazioni dalla politica d’industrializzazione promossa dalla Cassa del Mezzogiorno, si rilancia nel clima del ’68 attraverso il rapporto con gli operai e le operaie delle nuove fabbriche. Un rapporto, a dir la verità, tutt’altro che facile, giacché le lavoratrici e i lavoratori, assunti in buona parte tramite la Dc e il Msi, all’inizio semplicemente ci respingevano. Non ne volevano sapere della Cgil e del Pci. Ci rendemmo allora conto che la classe operaia nella realtà era ben diversa dall’astrazione mitica che avevamo noi nella zucca. La situazione si sbloccò solo quando sostenemmo con forza il superamento delle “gabbie salariali”. Era infatti del tutto inconcepibile che un lavoratore e una lavoratrice di Aprilia in provincia di Latina guadagnassero circa il 20 per cento in meno di coloro che la voravano a Pomezia in provincia di Roma, a pochi chilometri di distanza.
Poi sono stato segretario del Pci del Lazio dal 1970 al 1976. Successivamente di Roma, tra il 1977 e il 1979. Erano “gli anni di piombo”. Il culmine della strategia della tensione, messa in atto dalla destra fascistica con coperture di pezzi dello Stato e connivenze statunitensi allo scopo di isolare e spingere fuori gioco il Pci e i comunisti, colpendo al cuore la democrazia. Una sequenza di manifestazioni, di aggressioni, di attentati organizzati dai fascisti, dalle cosiddette brigate rosse e anche dai gruppi autonomi, che ponevano a repentaglio la sicurezza e la vita delle persone soprattutto nella giornata di sabato: i sabati della paura. Uno stato di cose da noi denunciato con un dossier sulla violenza, che ebbe ampia diffusione e mi procurò ripetute minacce di morte, anche con scritte che apparvero sui muri. Fu allora che il questore De Francesco mi assegnò una scorta. Una macchina, con due ragazzi che venivano da Subiaco e leggevano il manifesto, sostava sotto casa e mi seguiva negli spostamenti. Ma il più delle volte si perdeva nella città, una realtà complicata che la mia scorta non conosceva.
Alle conquiste dei lavoratori e delle lavoratrici è sempre seguita una controffensiva autoritaria e fascistica. Ciò si è verificato soprattutto negli anni 70, quando si raggiunsero due traguardi fondamentali di incivilimento e di progresso sociale applicando i principi costituzionali: lo Statuto dei diritti dei lavoratori e il Servizio sanitario nazionale, alla elaborazione del quale io stesso partecipai con Giovanni Berlinguer. La strategia della tensione allora fu dispiegata al massimo con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse il 9 maggio del 1978. Un momento oscuro della nostra storia sul quale ancora non si è fatta piena luce. Un vero e proprio colpo di Stato, che sebbene non riuscì a liquidare la democrazia di certo cambiò il percorso del Paese.
Roma era allora l’epicentro di uno scontro permanente, che riuscimmo a sostenere mantenendoci sempre sul terreno della mobilitazione democratica, nonostante le misure restrittive del governo messe in atto dal ministro Cossiga per impedire le manifestazioni pubbliche. Era il periodo in cui governavamo Regione Lazio, Provincia e Comune di Roma, con Luigi Petroselli sindaco dal 1979 al 1981. Certo in condizioni di gravi difficolta, ma sempre con ineccepibile trasparenza. Sollecitando in pari tempo una continua partecipazione popolare che ha consentito di salvaguardare la democrazia.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Ottava Per i motivi che ho sopra ricordato hai conosciuto da vicino lo stesso Berlinguer che, tra l’altro, ti ha preceduto nella segreteria del Comitato Regionale del Lazio. Cosa ricordi dell’uomo e come valuti la sua azione politica?

«Enrico Berlinguer era una persona speciale, che suscitava rispetto e ammirazione soprattutto tra i giovani per la sua serietà e per la coerenza degli atti politici. Niente retorica, niente demagogia. Al contrario, la dedizione costante, persino testarda, allo studio, alla conoscenza dei problemi reali degli uomini e delle donne del suo tempo. E l’impegno instancabile volto a elevare il livello politico e culturale delle masse, nella convinzione che un partito di massa dovesse anche esercitare una pedagogia di massa. Ricordo che quando interveniva in manifestazioni pubbliche e in riunioni di partito chiedeva sempre informazioni e relazioni preventive. Voleva essere informato dettagliatamente per poter dare un contributo concreto alla soluzione dei problemi del momento, sempre nel quadro di una visione generale che non veniva mai meno.
Uno stile che è andato perduto, con il risultato di separare la politica dalla realtà. Un modo di essere e di operare di un uomo politico fuori dal comune che non derogava mai da un rigoroso equilibrio, e quindi da una inderogabile distinzione, tra funzione pubblica e vita privata. E che sapeva non abusare delle parole, facendo pesare soprattutto la forza dei fatti, dell’azione politica, dei movimenti sociali. Credo che sia stato il più grande dirigente della sinistra in Italia e in Europa nella seconda metà del Novecento. Della stima e della popolarità di cui godeva furono testimonianza indelebile i suoi funerali il 13 giugno 1984: la più grande manifestazione di popolo nella storia di Roma e d’Italia che rese a tutti evidente «l’affetto», «la fiducia per quest’uomo», come disse il presidente della Repubblica Sandro Pertini: “un giusto, un amico fraterno, un compagno di lotta”. Mentre gli operai della Fiat innalzavano un grande striscione nel quale avevano scritto: “Siamo venuti per ricambiare quello che hai fatto per noi”.
In tutta la sua vita Enrico Berlinguer ha seguito una costante: la lotta per la trasformazione socialista della società, rinnovando profondamente, in pari tempo, la politica e la cultura dei comunisti italiani ed europei. Un obiettivo strategico mai messo da parte. Anche se non è mancato, in un quadro di grandi innovazioni, qualche passaggio non all’altezza della sua visione del mondo. A proposito del compromesso storico con la Democrazia cristiana, è stato egli stesso a osservare – confermando la grandezza di un uomo politico in grado di riconoscere gli errori – di avere sbagliato “sulla possibilità che la Dc potesse rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica”. Sono stati commessi – aggiungeva – “errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo” che hanno indebolito “il nostro rapporto con le masse”.
Non è una scoperta affermare che il rapporto con le masse era da lui considerato l’asse fondante della politica, perché se tale rapporto si indebolisce la politica decade, e diventa – nel migliore dei casi – politicismo. Berlinguer è stato l’ultimo segretario del Pci che ha lottato senza tregua per mantenere vivo il rapporto con le masse, non smarrendo mai l’obiettivo del cambiamento della società. Il suo incontro con gli operai della Fiat ai cancelli della fabbrica ne è la testimonianza più nota e appariscente. Poi ha vinto il migliorismo, anche perché la morte lo ha colpito proprio nel momento in cui aveva deciso di aprire contro il migliorismo una vera e propria offensiva culturale e politica. La società non si cambia, si migliora: così, con questa acquisizione migliorista di Giorgio Napolitano, la sinistra ha perso di fatto la sua autonomia culturale e politica. La gestione del presente ha prevalso sull’obiettivo della trasformazione, l’amministrazione sulla rivoluzione.
Enrico Berlinguer era molto rigoroso, e anche severo, nei rapporti politici e di partito. Molto attento e aperto in quelli personali e privati disponeva anche di un sottile senso dello humor. Ricordo ancora con chiarezza seppur velata da una punta di nostalgia la giornata di un lontanissimo 1966, quando su una vecchia Fiat 1100 che perdeva pezzi mi portò a Latina per propormi segretario della Federazione del partito. Un’impresa non facile – e infatti rimasi per ore fuori dalla porta – dal momento che non mancavano i candidati locali. Chi non era del posto, come me, veniva guardato con preoccupazione se non con sospetto. Ma Berlinguer riuscì nell’impresa di farmi eleggere. E sulla via del ritorno trovò anche il modo di farmi capire, riferendomi con un sorriso appena accennato alcune battute non proprio entusiasmanti nei miei confronti, quali sarebbero stati i problemi che avrei dovuto affrontare per poter stabilire una efficace collaborazione. Cosa che poi si verificò avviando un rapporto con la giovane classe operaia in formazione, soprattutto nella lotta per il superamento delle gabbie salariali. Un movimento che acquistò dimensione nazionale e portammo alla conclusione vittoriosa anche grazie al lavoro della compagna Gisella de Juvalta, sindacalista venuta dalla Fiom di Torino.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Nona Hai contrastato la cosiddetta “svolta della Bolognina”, la proposta di Occhetto di cambiare nome al partito per avviare la costruzione di una nuova formazione politica. Tuttavia, nonostante vari tentativi e diversi cambiamenti di nome, la fine del Pci la lasciato un vuoto a sinistra che non è stato colmato. Cosa può essere recuperato oggi di quella esperienza politica e della elaborazione teorica dei grandi personaggi che ne stanno alla base, a cominciare da Antonio Gramsci per continuare con Togliatti, Longo, Berlinguer e Natta?

«Occorre ricominciare dall’analisi della società, dei rapporti economici e sociali, come insegnava Gramsci. Oggi è venuta meno l’analisi di classe e del conflitto tra le classi, e quindi dell’esercizio del potere da parte della classe dominante. Non solo sul terreno economico e sociale, bensì anche su quello non meno rilevante della politica e della cultura, che andrebbe attentamente indagato. La negazione delle classi è l’espressione più alta dell’egemonia della classe dominante. E poiché non esiste al mondo un assetto capitalistico in assenza delle classi e del conflitto, aver abbandonato l’analisi di classe ha comportato la cancellazione della cultura critica del capitalismo, vale a dire della realtà che ci circonda. Di conseguenza è stato liquidato il partito politico della classe lavoratrice e dei ceti subalterni, lo strumento indispensabile per trasformare questa realtà, la società capitalistica nel suo concreto svolgersi e manifestarsi. Che oggi, con le sue contraddizioni, mette in discussione il mondo, l’esistenza stessa del pianeta Terra. Ma se non si ricomincia da una visione complessiva di questo stato delle cose, da una cultura critica della realtà che coinvolga in pari tempo l’insieme della natura e la convivenza del genere umano, la prospettiva del cambiamento resta una pia illusione.»

10 DOMANDE A PAOLO CIOFI.

Decima Dopo la fine del Pci, a parte i contraccolpi umani e psicologici, ti sei impegnato anzitutto nell’associazione Futura Umanità, nata proprio per conservare, studiare e attualizzare la storia e lascito di quel partito, che non è stato, come qualcuno sostiene, una dannazione per l’Italia, ma viceversa un frutto positivo della nostra storia e un pilastro della democrazia. Il Partito Comunista Italiano è stato una organizzazione politica che ha combattuto strenuamente il fascismo, che con la Resistenza ha contribuito alla liberazione del nostro paese dalla barbarie nazista e successivamente alla vittoria della repubblica nel referendum del 2 giugno del 1946 e infine, nell’assemblea costituente, è stato determinante nella elaborazione di una delle carte costituzionali più avanzate nel mondo. In tutta la storia del secondo dopo guerra il Pci è stato un pilastro nella difesa delle istituzioni democratiche, nell’ottenimento di migliori condizioni di vita per milioni di lavatori, per l’emancipazione e la liberazione di grandi masse femminili, per il consolidamento e l’estensione di tutti i diritti sociali e civili. Con ciò non si vuol dire che non ci siano stati limiti ed errori, ma semplicemente affermare, alla luce della realtà storica, che il Pci è stato presente in tutte le conquiste della cosiddetta prima repubblica e che senza di esso tali risultati non sarebbero stati possibili. Ecco perché è giusto mantenerne il ricordo ed è opportuno quindi concludere questo nostro colloquio con una tua riflessione finale sul centenario della fondazione del partito, che cade il 21 gennaio del 2021 e che potrà essere una occasione proprio per collocare nel giusto modo il Pci nella storia d’Italia.

«Se si ricostruisse un’analisi oggettiva del contrastato percorso di questo nostro Paese, si perverrebbe facilmente a una conclusione difficilmente contestabile, che deporrebbe l’anticomunismo nell’unico posto dove dovrebbe stare: l’immondezzaio della storia. Al contrario della classe dirigente borghese e proprietaria, disponibile per tutte la avventure fino a spingerci nel buco nero delle guerre e del fascismo, i comunisti italiani sono stati non solo il fulcro della lotta per la libertà, ma anche i più tenaci combattenti per la democrazia in Italia e in Europa.
Ciò non vuol dire che non vi siano stati errori e debolezze. Dopo la grande avanzata nelle elezioni regionali e politiche del 1975-76 il Pci non è stato in grado di proporre una radicale riforma dello Stato di classe, burocratico e accentratore. Mentre nel frattempo si affermava una pratica del tutto erronea, che ponendo il partito al servizio non degli amministrati ma degli amministratori ne limitava l’autonomia e il rapporto con la società. Erano i segnali di un indebolimento e di una vera e propria involuzione, i prodromi del processo che porterà non al necessario rinnovamento ma allo scioglimento del partito. Con il risultato di privare le classi lavoratrici di rappresentanza e di organizzazione, determinando con ciò un vuoto di democrazia.
Nessuno però può negare che i comunisti italiani hanno svolto nel nostro Paese e in Europa una funzione decisiva di progresso e di avanzamento sociale e civile. Hanno combattuto il fascismo e organizzato la guerra di liberazione, hanno coerentemente lottato per abbattere la monarchia e instaurare la repubblica, per dare all’Italia la Costituzione «più bella del mondo», per costruire la democrazia e affermare la libertà degli uomini e delle donne, per realizzare i diritti sociali e civili, per isolare e sconfiggere il terrorismo. In breve, proprio in ragione di una visione fortemente innovativa, che rovesciando il tradizionale concetto della presa violenta di potere intende e pratica gramscianamente la rivoluzione come processo di trasformazione complesso e duraturo del sistema politico e della società, i comunisti di questo Paese hanno svolto una funzione trainante nella costruzione della democrazia e nel rinnovamento dell’Italia, proponendosi come rappresentanti e organizzatori della classe lavoratrice e dei ceti popolari.
Togliatti, il più grande innovatore del comunismo in Occidente nella seconda metà del 900, capovolge il concetto tradizionale di rivoluzione teorizzando e praticando la «democrazia progressiva» come mezzo di trasformazione sociale. Il processo rivoluzionario può avanzare per via pacifica sul terreno del conflitto di classe attuando la Costituzione antifascista, un progetto di nuova società. Si delinea così una visione del tutto inedita, nella quale il socialismo non è più il «sol dell’avvenir» e neanche il migliorismo socialdemocratico. Ma non si identifica con il modello sovietico, che peraltro aveva esaurito la sua capacità propulsiva, come osservò Enrico Berlinguer. Si tratta invece di una civiltà più avanzata, proiettata verso nuove mete di uguaglianza e di libertà per tutti gli uomini e le donne, da costruire nelle condizioni storiche concrete di ciascun Paese. Nella quale la democrazia si configura come fattore costitutivo del socialismo, e il partito delle classi lavoratrici e subalterne si confronta con altre formazioni partitiche. Sono questi i fili che hanno tessuto la tela del comunismo italiano.
Oggi viviamo in una fase di crisi generale del sistema, di cui l’aumento della povertà e la concentrazione della ricchezza, lo sfruttamento degli esseri umani (la stragrande maggioranza) da parte di altri esseri umani (una minoranza sempre più ristretta), la rottura dell’equilibrio naturale e il surriscaldamento del pianeta sono le manifestazioni più appariscenti e preoccupanti. La diffusione del Covid ne è conferma universale e drammatica. Siamo in presenza di una condizione del mondo che richiede un cambiamento di sistema, il rovesciamento delle finalità dell’agire umano: non il massimo profitto per pochi, bensì il benessere comune. Una necessità che però non trova sbocco nel vuoto delle condizioni soggettive del momento. Si sentono e bruciano sulla nostra pelle il degrado della politica e l’assenza di un partito che organizzi e rappresenti l’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori, delle classi e dei ceti sfruttati e subalterni.
Il recupero della storia e della memoria del Pci non può essere dunque un’operazione nostalgica, con la faccia rivolta all’indietro. Soprattutto in questo stato delle cose. Al contrario, il centenario della fondazione del partito comunista in Italia si presenta come un’occasione per indagare e recuperare una cultura critica e un metodo di azione politica, rivolti esattamente al rovesciamento dello stato delle cose in questa fase storica nella quale ci troviamo a vivere e operare.
Oggi più che mai è necessaria una forza politica del cambiamento che si fondi su tre assi principali:
-l’obiettivo del superamento del sistema verso una civiltà più avanzata, che muova dai principi universali della nostra Costituzione (la libertà della persona, l’uguaglianza sostanziale, la funzione sociale della proprietà);
-la capacità di dare risposte concrete ai problemi che quotidianamente travagliano la vita degli uomini e delle donne del nostro tempo:
-l’insediamento stabile di tale forza politica nel fondamento della società, nella massa di tutti coloro, donne e uomini, che sono sfruttati e oppressi.»

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