Femminicidi. Non solo cultura patriarcale

Femminicidi Uno ogni tre giorni da ©CollettivaFemminicidi Uno ogni tre giorni da ©CollettivaFemminicidi Uno ogni tre giorni da ©Collettiva

di Laura Liburdi

Femminicidi. Non solo cultura patriarcale
Femminicidi. Non solo cultura patriarcale

FEMMINICIDI. Pochi giorni ci separano dalla fine del 2023, dall’ epilogo di un anno che, sul fronte femminicidi, si chiude con il tragico bilancio di 118 donne uccise, di cui 96 morte  nell’ ambito affettivo o familiare.

In queste ultime settimane, sull’onda emotiva del caso Giulia Cecchettin e del “je accuse” al patriarcato della sorella Elena, si è discusso molto sulla matrice culturale alla base di tale fenomeno, finendo tuttavia per tralasciare tutte quelle problematiche reali, meno ideologiche del patriarcato, in cui inevitabilmente inciampano le donne vittime di violenze.

Problematiche che costituiscono, a tutti gli effetti, un deterrente a denunciare gli abusi subiti. I dati Istat parlano chiaro: solo il 12,2% delle violenze da partner e il 6% di quelle da non partner vengono regolarmente denunciate.

E dunque, al netto di questi numeri,  sorge spontaneo domandarsi: perché le donne non denunciano? Cosa si cela dietro il silenzio delle vittime?! Le prime risposte vanno sicuramente ricercate nelle falle del sistema giudiziario.

La donna che sceglie di denunciare espone se stessa non solo al rischio di ripercussioni da parte dell’aguzzino, ma anche a tutta una serie di effetti collaterali, come quello della “vittimizzazione secondaria”, un fenomeno che spesso si attiva già nella fase iniziale della denuncia quando la vittima non viene creduta , o quando la violenza che denuncia viene “ridimensionata” o peggio addebitata ad una responsabilità di chi la subisce.

Per non parlare di ciò che le donne subiscono nelle aule di tribunale,  specialmente nei casi di stupro, con gli interrogatori brutali a cui sono sottoposte, in cui senza pudore e empatia si cerca di difendere il carnefice ricercando nella condotta della vittima  prima la causa scatenante e poi la giustificazione dell’ abuso subito.

A questo si aggiunge il cortocircuito giudiziario che può innescarsi nel caso di coinvolgimento dei figli nella violenza domestica. La tutela offerta dal nostro ordinamento dal 2006 alla genitorialità condivisa costituisce uno dei principali fattori di deterrenza alla denuncia. 

È ragionevole pensare che una madre vittima di violenza sia più che intenzionata a difendere i propri figli dal marito/padre violento, anche attraverso una richiesta di affidamento esclusivo che difficilmente verrà concessa dal giudice.

Anzi, in questi casi le vittime rischiano l’accusa di alienazione parentale, perché i minori rifiutano di incontrare il genitore violento e sovente le autorità giudiziarie, anziché interrogarsi sui reali motivi di tale rifiuto, preferiscono avvallare le accuse del padre violento che, nella stragrande maggioranza dei casi, accusa e contesta alla donna il fatto di essere una “cattiva madre”  o meglio “una madre alienante”.

Insomma, il rischio concreto per le donne in tali casi è la sospensione della potestà genitoriale e l’affido dei minori ad una casa famiglia. Uno scenario che farebbe tremare qualsiasi madre, tanto da spingerla a mantenere il silenzio sulle violenze consumate a suo carico tra le mura domestiche, e questo nonostante i segnali positivi provenienti dalla giurisprudenza di legittimità che, nel 2022, ha ribadito come “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”.

Un quadro, quello che quindi si delinea nelle vicende giudiziarie, che deve farci riflettere e che rivela come il problema alla base della violenza sulle donne non sia solo e prettamente culturale.

Certo, la sottocultura patriarcale è sicuramente la madre di tali fenomeni, e certamente è necessario adoperarsi per estirparla e combatterla in modo definitivo. Ma le rivoluzioni culturali richiedono tempo e i dati sul femminicidio ci stanno dicendo chiaramente che di tempo non disponiamo più e che, nell’ attesa, rischiamo di perdere altre vite.

Urge pertanto intervenire lì dove è già possibile, potenziando i Centri antiviolenza, investendo sulla formazione dei professionisti impegnati nel percorso di uscita dalla violenza della donna, partendo dalle forze dell’ordine che hanno spesso il primo contatto, passando per i professionisti sanitari, fino ad arrivare ad avvocati e giudici, sensibilizzando anche quel contesto giudiziario che troppo spesso sembra operare come inquisitore e non come tutore delle vittime.

Fino ad allora non potranno esserci le condizioni necessarie a combattere e prevenire certi reati, e continueremo a leggere sui giornali la cronaca di quelle tragiche morti annunciate che oggi portano il nome di Giulia, Vanessa, Meena, Vincenza, e delle altre uccise più che dal patriarcato dall’inadeguatezza del sistema istituzionale.

Con l’ augurio che lo slogan “non una di meno” diventi realtà.


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