Le proteste degli studenti USA

Migliaia di manifestanti pro-Palestina riuniti presso l’Università della California, Los Angeles-©shutterstock.comMigliaia di manifestanti pro-Palestina riuniti presso l’Università della California, Los Angeles-©shutterstock.com

La reazione delle università


di Stefano Rizzo

PROTESTE Nei tempi bui dell’Inquisizione era uso da parte dei tribunali ecclesiastici richiedere agli accusati, spesso con l’uso della tortura, di ammettere le loro colpe. Questo non li avrebbe salvati dalla sentenza già prevista (di solito la morte sul rogo), ma avrebbe salvato la loro anima.

Le proteste degli studenti USA Studenti universitari USA che protestano
Le proteste degli studenti USA

Un secolo dopo circa i coloni inglesi di Salem nel Massachussetts seguirono la stessa pratica nei processi intentati nei confronti di centinaia di donne accusate di stregoneria: prima la confessione sotto tortura e l’assoluzione per la salvezza dell’anima, poi il rogo.

Duecento anni dopo un regime laico come quello sovietico seguì lo stesso modus operandi. Dagli accusati di essere controrivoluzionari Stalin esigeva il pentimento pubblico − a quei tempi chiamato “autocritica” − poi la Siberia o, meglio ancora, una pallottola nella nuca risolveva il problema di cosa fare con i reprobi.

L’ “autocritica”

È sorprendente notare come lo stesso principio fosse ancora all’opera nell’America del XX secolo.

I processi dell’epoca del Maccartismo (metà degli anni Cinquanta) si dividevano in due parti: prima le audizioni davanti alla commissione del Congresso in cui il senatore McCarthy spingeva i “convocati” ad ammettere le loro attività “non-americane”, cioè di essere comunisti o simpatizzanti dell’Unione Sovietica.

Poi, terminate le audizioni, gli accusati venivano affidati al sistema penale che li processava per tradimento oppure venivano licenziati dai luoghi di lavoro o altrimenti ostracizzati dalla società.

Qualcosa del genere sta avvenendo in questi giorni nelle università americane occupate dagli studenti che protestano contro gli eccidi israeliani nella guerra di Gaza.

Come si sa, nelle scorse settimane centinaia di università sono state occupate, migliaia di studenti sono stati arrestati e adesso che il movimento di protesta sembra scemare è iniziata la repressione.

Anche questa in due fasi. Tralasciamo i risvolti penali, che seguiranno il loro corso. Siamo abituati a vedere le scene di gruppi di manifestanti americani ammanettati e arrestati.

Le abbiamo viste negli anni passati in occasione delle proteste contro la guerra irachena, nelle manifestazioni di Occupy Wall Street e da ultimo nelle proteste di Black Lives Matter.

Quello che non si sa è che sebbene si risolvano spesso con sentenze miti o puramente simboliche, gli arresti hanno conseguenze durevoli sugli arrestati che, con la fedina penale sporca, perdono il diritto di voto e possono avere difficoltà nel trovare un lavoro o ottenere un prestito.

La sanzioni

Concentriamoci invece sui risvolti “morali”.

All’inizio delle proteste pro-Palestina e in misura crescente via via che si intensificavano, le università hanno minacciato l’espulsione o la più blanda sospensione dei manifestanti. In entrambi i casi si tratta di provvedimenti tutt’altro che simbolici.

Uno studente espulso, oltre a perdere le spesso ingentissime tasse universitarie, difficilmente riuscirà ad essere ammesso da un’altra università che userà la discrezionalità di cui gode per preferire richiedenti più tranquilli.

Ma anche per una semplice sospensione il prezzo da pagare è piuttosto alto: vuol dire non potere sostenere gli esami del semestre, non potersi laureare, non potere proseguire gli studi iscrivendosi ad un master e così via.

I perdoni?

A onore del vero, dopo aver fatto la faccia feroce alcune università hanno deciso di “perdonare” i propri studenti indisciplinati, affidando allo stesso tempo gli eventuali non studenti arrestati al rigore della legge.

I propri saranno perdonati, ma ad una condizione: che ammettano pubblicamente la loro colpa, non in un processo (che sarebbe disdicevole per l’università), ma sottoponendosi ad un corso di rieducazione e scrivendo poi un paper in cui riconoscano i propri errori, spieghino come e perché si sono sbagliati e promettano di non farlo più.

Se vi sembra roba da Inquisizione, da processi alle streghe, da processi farsa staliniani o da anni del maccartismo non siete lontani dal vero. Mancano i roghi e le torture certo, manca la Siberia, ma il principio per cui bisogna ammettere la colpa per essere perdonati è lo stesso.

A sostenere questo principio educativo è stata per prima la prestigiosa New York University. In una lettera-ingiunzione a tutti gli studenti che nelle scorse settimane si sono accampati nei cortili dell’università e hanno perfino occupato la biblioteca, l’amministrazione universitaria ha ordinato, sotto pena di severissimi provvedimenti disciplinari, di ammettere pubblicamente le proprie colpe, con queste melliflue parole in perfetto newspeak orwelliano:

«Vivere e elaborare questa esperienza stressante [l’occupazione] evoca varie emozioni e sentimenti complessi che possono avere influenzato la vostra capacità di concentrazione e di sentirvi protetti».

Parole che si potrebbero usare nei confronti di bambini capricciosi (e anche in questo caso sarebbe discutibile), e non di giovani adulti, spesso molto meglio informati e documentati degli amministratori universitari che pretendono “educarli”, studenti che agivano sulla base di ragionati principi politici e morali.

La prima volta dell’ammisione di colpevolezza

È stato fatto notare che, per quanto la pratica di richiedere l’ammissione di colpevolezza abbia una lunga e non gloriosa tradizione, è la prima volta che è stata adottata da una università americana (altre sicuramente seguiranno).

Quando sessanta anni fa i nonni degli studenti di oggi protestavano per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam, con occupazioni e manifestazioni ben più violente che durarono anni, le università non presero alcun provvedimento per punirli né tantomeno cercarono di rieducarli.

Eppure il clima era a quei tempi ben più infuocato: migliaia di soldati americani morivano in Indocina (assieme a milioni di indocinesi) e gli studenti venivano accusati di essere comunisti e traditori della patria.

Oggi i manifestanti protestano “soltanto” contro l’eccidio commesso da un altro Paese e si limitano a chiedere che il proprio Paese non gli fornisca le armi per continuare nella sua opera omicida.

Invece di preoccuparsi della loro «capacità di concentrazione», le università americane dovrebbero essere contente che i propri studenti (certo soltanto una parte di loro, una minoranza) si siano esposti a subire i rigori della legge − manganelli, spray urticanti, granate assordanti comprese − per affermare quello che ritengono un principio morale: che non si uccidono in guerra indiscriminatamente civili inermi.

Nelle loro manifestazioni possono non avere rappresentato adeguatamente tutti i punti di vista, né avere tenuto conto delle “ragioni” dello Stato di Israele, ma forse è bene ricordare che una manifestazione non è la stessa cosa di un dibattito accademico o di un seminario universitario.

È per sua natura l’affermazione fisica (sperabilmente non violenta, come in questo caso) di principi e di valori; un’affermazione che, per quanto rozza, dovrebbe essere apprezzata come segno di sensibilità morale e non condannata come una colpa da espiare, soprattutto da parte di un’istituzione universitaria.

Immagine: Migliaia di manifestanti pro-Palestina riuniti presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA), Los Angeles; Stati Uniti (29 aprile 2024). Crediti: Ringo Chiu /shutterstock.com/it

Stefano Rizzo

Stefano Rizzo. Giornalista, romanziere e saggista specializzato in politica e istituzioni degli Stati Uniti. Già Sovrintendente dell’Archivio storico della Camera dei deputati, ha insegnato per diversi anni Relazioni internazionali all’Università di Roma “La Sapienza”. E’ autore di svariati volumi di politica internazionale: Ascesa e caduta del bushismo (Ediesse, 2006), La svolta americana (Ediesse, 2008), Teorie e pratiche delle relazioni internazionali (Nuova Cultura,2009), Le rivoluzioni della dignità (Ediesse, 2012), The Changing Faces of Populism (Feps, 2013). Ha pubblicato quattro volumi di narrativa; l’ultimo è Melencolia (Mincione, 2017

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Stefano Rizzo. Giornalista, romanziere e saggista specializzato in politica e istituzioni degli Stati Uniti. Già Sovrintendente dell'Archivio storico della Camera dei deputati, ha insegnato per diversi anni Relazioni internazionali all'Università di Roma "La Sapienza". E’ autore di svariati volumi di politica internazionale: Ascesa e caduta del bushismo (Ediesse, 2006), La svolta americana (Ediesse, 2008), Teorie e pratiche delle relazioni internazionali (Nuova Cultura,2009), Le rivoluzioni della dignità (Ediesse, 2012), The Changing Faces of Populism (Feps, 2013). Ha pubblicato quattro volumi di narrativa; l’ultimo è Melencolia (Mincione, 2017)

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