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Andre Markowicz : genealogie del conflitto

 OPINIONI

La letteratura come strumento di analisi

di Fausto Pellecchia

AndreMarkowitz philomag 390 min1 - L’Ucraina e la liberazione della Russia dai propri fantasmi ideologici

 Nel panorama culturale europeo, il dibattito intellettuale indotto dall’aggressione dell’Ucraina ad opera dell’esercito di Putin, è stato per lo più ridotto al conflitto tra opposte strategie della comunicazione mediatica e della propaganda che affiancano, come docili armamenti ideologici, l’azione dei governi coinvolti negli scenari di guerra e nella profonda crisi geopolitica che ne deriva. Molto più rarefatta, per non dire totalmente oscurata, è stata l’attenzione per le prese di posizione degli intellettuali, scrittori, poeti e operatori culturali, circa le cause e le implicazioni culturali soggiacenti al conflitto politico-militare scatenato dalla Russia di Putin.

In tale contesto, segnato da censure e rimozioni, appare emblematica la figura e l’opera di André Markowicz, nato a Praga nel 1960 da madre russa, esiliata da Stalin, e da padre francese di origine polacca, che ha trascorso la sua infanzia a Leningrado (San Pietroburgo), presso la nonna russa. Dalla fine degli anni sessanta, Markowicz è trasferito in Francia, diventando il più noto traduttore in lingua francese dei grandi autori della letteratura russa, da Cekov a Puskin, da Dostoevskij a Bulgakov. Qui ha pubblicato, infatti, più di cento volumi di traduzioni, opere di prosa, poesia e teatro partecipando a più di cento allestimenti delle sue traduzioni anche in QuébecBelgio e Svizzera. In un breve testo recente, E se l’Ucraina liberasse la Russia? [Et si l'Ukraine libérait la Russie ?, édition du Seuil, Paris, 2022], redatto nell’urgenza drammatica della guerra, Markowicz non intende intraprendere un esercizio di prognosi politica quanto piuttosto esplorare le forme e le attività che potrebbero salvare la Russia da se stessa, cioè dall’ignominia che minaccia il suo futuro a causa di un capo autocrate e sanguinario come Putin.

2 - La letteratura come strumento di analisi: passare da Dostoevskij a Cechov

Per Markowicz, «la guerra intrapresa da Putin lascia la Russia dinanzi allo specchio nel quale si legge una triplice mostruosità e un triplice fallimento»: il fallimento prodotto dall’ideologia panslavista, il fallimento della Chiesa ortodossa russa, che benedice le armi di Putin, e il fallimento generato dalla violenza endemica che sottende i rapporti umani: «Nel corso degli anni, il paese governato da Putin è sprofondato nella mitizzazione di una storia russa ricostruita e imposta come la sola legittima». Putin sarebbe dunque all’origine di una riscrittura – di una falsificazione- della storia reale che aveva cominciato ad apparire dopo qualche anno di liberalizzazione. Pertanto, «è indispensabile – osserva l’autore –che la realtà dei crimini commessi in Ucraina dall’armata russa raggiunga finalmente la coscienza pubblica degli stessi russi».

Alla diagnosi, ormai ben documentata, di un Putin autocrate che ha sempre regnato sotto le insegne della guerra, l’Autore aggiunge la sua conoscenza dei grandi scrittori russi, la cui differenza è interpretabile come la lontana radice culturale dell’alternativa che domina l’attuale orizzonte politico della Federazione russa. Detto all’ingrosso, si tratta di scegliere tra l’iscrizione simbolica della Russia di Cechov e quella di Dostoevskij, cioè tra la visione di una Russia animata dalla protesta contro la cieca ambizione dei potentati, attraverso un appello a prendersi cura della follia degli uomini e a proteggere gli esseri viventi come ne Il Giardino dei ciliegi (1904); e l’immagine di una Russia inebriata dalla sua volontà di potenza, che esalta il suo popolo “teoforo”, portatore di un Dio che le apparterebbe in proprio, come in Dostoevskij, identificato come il portavoce del sottosuolo ideologico degli slavofili, in opposizione ad ogni avvicinamento ai valori occidentali.

Certo, si potrebbe discutere sulla maniera troppo monocromatica e sbrigativa con la quale il suo traduttore francese scorge in Dostoevskij l’araldo di una Russia eterna e violenta, mentre in realtà l’autore di Delitto e castigo resta per molti aspetti abbastanza inclassificabile da un punto di vista strettamente politico-ideologico. Tuttavia, ciò che soprattutto affiora attraverso questa esplorazione della letteratura russa, è l’ipotesi ermeneutica che essa contenga dentro di sé tutte le tensioni, le contraddizioni, ma anche tutte le risorse di un possibile risveglio.

Se l’esistenza dell’Ucraina è messa in questione da Putin, Markowicz difende l’ipotesi – meno sotto la forma di una provocazione che nella forma di una riflessione lucida e razionale - che l’elettrochoc generato dal disastro ucraino risveglierà presto le coscienze e cambierà, probabilmente, la storia russa: «In questa guerra, come per tutto il resto, i Russi devono passare da Dostoevskij a Cechov: osservare la realtà concreta, umana, quotidiana, di ciò che accade. Rigettare la menzogna dell’epopea e, quindi, iniziare a vedersi così come effettivamente sono. Solo allora l’Ucraina – a prezzo di quale catastrofe e di quali tragedie – avrà liberato la Russia». Solo allora il paese sarà liberato dai suoi demoni. André Markowicz è infatti convinto che «il conflitto tra cultura e potere, che giace al fondo della tradizione russa, costituisce il cuore anche di questa guerra»

Da quasi dieci anni, il traduttore francese delle opere di Dostoevskij e autore de L’appartamento (2018), documenta l’ascesa montante del nazionalismo russo, eco delle spinte nazionalistiche del passato che hanno perseguitato numerosi scrittori, da Aleksandr Sergeevič Puškin a Varlam Shalamov.

Nella traduzione de Il sole di Alessandro di Puškin [Atti del Sud, 2011] André Markowicz ricostruisce la biografia del poeta e drammaturgo russo attraverso la traduzione e il commento di duecento poeti e scrittori contemporanei. Molti di loro furono imprigionati ed esiliati, come lo stesso Puškin, dopo il complotto dei decembristi del 1825 contro lo zar Nicola I. Questi scrittori furono identificati per la prima volta come appartenenti alla generazione degli autori e poeti in lotta contro il potere e la tirannia. Questa generazione in guerra è una delle costanti della storia russa(si pensi alla repressione staliniana). Oggi, nella tragedia ucraina, si assiste al massacro di migliaia di civili e all’evacuazione di milioni di persone. Ma l’Ucraina è anche legata al nome di Bulgakov, nato a Kiev, del quale Markowicz ha tradotto Il maestro e Margherita. Si pensi anche a Vassilij Grossman, nato a Berdičev, o a Nikolaj Vasil'evič Gogol. Putin ha distrutto, almeno per una generazione, il bilinguismo in Ucraina. Che resterà della lingua e della cultura russa dopo questa ennesima distruzione?

3 - Il ritorno della retorica sovietica e staliniana

Mentre l’Ucraina è diventata un deposito di armi, in Russia, d’altra parte, si assiste al ritorno di un rozzo nazionalismo.

Secondo Markowicz, data dal 2013 l’irrigidimento del discorso nazionalista di Putin. Questa è l’epoca alla quale appartengono i primi giovani adulti che hanno conosciuto soltanto Putin e la sua propaganda per la salvezza della Russia attraverso gli armamenti, in quanto si invoca la necessità di difendersi dall’attacco militare di tutto il mondo occidentale, in particolare ad opera dell’egemonia culturale nelle mani di democratici decadenti e di omosessuali. Questo irrigidimento è il motivo della mobilitazione dei simboli e delle immagini-feticcio di un glorioso passato. Si consideri la riscoperta del Nastro di San Giorgio, un emblema militare zarista inesistente all’epoca dell’Unione Sovietica ma onnipresente nella Russua putiniana quando si tratta di celebrare la Grande guerra patriottica contro il nazismo. È possibile persino trovare in commercio sedie a sdraio con i colori di San Giorgio. Questi dettagli sembrano irrilevanti ma si tratta, in verità, della sostituzione dell’idea con l’oggetto. Vi sono inoltre tutte quelle leggi terribili sulla memoria storica che proibiscono di mettere in discussione il discorso ufficiale sull’eroismo dell’armata rossa, liberatrice dei popoli: un divieto che non impedisce alle migliaia di sopravvissuti della Seconda Guerra mondiale di vivere oggi in condizioni abominevoli. Gli studi storici sono impediti e gli archivi sono chiusi. All’inizio degli anni 2000, c’è stata una serie di film russi che hanno rimesso in discussione questa versione sovietica dell’armata rossa. Ma questi film sono scomparsi tra il 2010 e il 2015, e si è ritornati alla retorica sovietica e stalinista. L’idea che l’individuo possa essere un valore fondamentale ha sempre provocato un acceso dibattito in Russia, quasi a simboleggiare le radici dello scontro politico tra Putin e Aleksei Navalny.

Anche questa riviviscenza dello slancio nazionalistico non è una novità. Lo si può datare dalla metà del sec.XIX, a partire dal dibattito tra gli slavofili e gli occidentalisti. Secondo i primi, l’Occidente, la Rivoluzione francese e la democrazia sono il male assoluto. L’odio degli slavofili contro l’Occidente poggia precisamente su questi punti: la democrazia significa innanzitutto il dominio della proprietà privata e del capitalismo. Sul piano filosofico, l’idea che l’individuo possa essere un valore fondatore ha sempre provocato un forte dibattito in Russia. Solzhenitsyn, per esempio, non credeva affatto che la Russia possa svilupparsi in una democrazia di tipo occidentale. Al contrario, altri scrittori, come Andrej  Sinjavskij, facevano appello ai diritti dell’uomo e alle libertà personali del cittadino.

Oggi la “via russa”, autoritaria ed espansionista, non tollera più alcun dibattito. Alcuni analisti ipotizzano persino la volontà di Putin di ricreare l’URSS, mentre qualche settimana fa si parlava soltanto del Donbass.

4 - Putin, l’ultimo zar di tutte le Russie

In realtà, non l’Unione Sovietica ma l’impero di Nicola I è l’idea ossessiva di Putin fin dall’inizio. Essa ha sempre dominato secondo la triade enunciata da Sergueï Ouvarov, ministro dello zar. Questi tre principi sono l’autocrazia, l’ortodossia e il nazionalismo: i tre fondamenti del potere di Putin, per non parlare della corruzione e della violenza. Ormai, Putin considera che tutti i paesi frontalieri entrano potenzialmente nell’orbita dell’Impero russo – donde i conflitti nell’ Abkhazia e in Ossezia. Ma Putin si spinge ancora oltre. Nella trasmissione televisiva di Olga Skabeeva, una delle più appassionate propagandiste del potere, un esperto militare spiegava con la massima tranquillità che l’esercito stava per invadere i paesi baltici, passando per le isole della Svezia. La questione non concerne più “ciò che si accingono a fare”, ma semplicemente il “quando”. Se e quando ne avranno la possibilità, lo faranno. Putin sa bene che la sua politica espansionista rischia di aprire un conflitto armato con la Nato e con l’Occidente, ma spera di resistere puntando sulla storia a lungo termine, o almeno è lusingato dall’idea di poter morire gloriosamente da martire della patria. Qui si entra prepotentemente nel registro dell’irrazionale. Già da qualche anno, ha spiegato sorridendo che, se il mondo intero attaccasse la Russia, tutti i russi ne morirebbero, ma andrebbero tutti in paradiso, mentre tutti glia altri sprofonderebbero nell’inferno,

L’aveva detto sorridendo e tutto l’uditorio era scoppiato a ridere. Ma se l’avesse detto seriamente? Putin sa che non ci sarà nessun rifugio e che finirà per soccombere. Non può conservare il potere con l’ampiezza delle sanzioni e in seguito ad una vergognosa disfatta militare. L’armata russa, che è ritenuta una delle più potenti del mondo, non intende certo condividere la sorte di Slobodan Milosevic e ancor meno quella di Saddam Hussein. Perciò l’unica leva che resterebbe contro Putin è nelle mani della sua cerchia ristretta, formata da coloro che hanno qualcosa da perdere. Gli ultimi discorsi di Putin sono diretti precisamente contro gli oligarchi. Quel che ne risulta è estremamente pericoloso, giacché questa il-logica della violenza tirannica sospende e cancella sia gli argomenti razionali, sia le spinte provenienti dall’istinto di conservazione.

L’unica residua speranza di salvezza è che comunque l’Ucraina liberi la Russia. È necessario, cioè, che lo choc di questa guerra ingiustificabile precipiti la caduta di un potere che non potrà legittimare una guerra assurda, avvalendosi del vocabolario allucinante sulla denazificazione; come se l’esercito russo lottasse contro un migliaio di neonazisti del battaglione d’Azov, mentre, mentre continua a bombardare gli ospedali, le scuole e i civili, cioè i 44 milioni di ucraini. Essi agiscono come agirono i siriani ad Aleppo o a Grozny durante la seconda guerra in Cecenia.

Non bisogna tuttavia farsi illusioni: per uscire dal clima del bellicismo putiniano, sostiene Markowicz, ci vorranno anni. In Ucraina, una società civile e una democrazia, pur con tutta la precarietà della situazione, si sono costituite nel giro di qualche anno, malgrado la persistenza dei problemi di corruzione. Ma, al di là delle terribili sanzioni economiche che stanno prostrando il popolo russo per un lungo arco di tempo, la rovina putiniana avrà prodotto danni devastanti, perché essa è innanzitutto una rovina dei cervelli e delle coscienze.

 

 

 

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