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USA. La posta in gioco nelle midterms

 

DAL MONDO

Sempre più un paese “antimaggioritario”: non è la maggioranza a governare, ma la minoranza

di Stefano Rizzo
JoeBiden a sotegno del candidato democratico della California 390 minUno dei motivi per cui è difficile prevedere come andranno le elezioni americane dell’8 novembre sono le oscillazioni dell’opinione pubblica. A primavera il gradimento nei confronti del presidente era sceso al 38 per cento (dal 57 iniziale), poi ad agosto era risalito al 45 per cento per precipitare nuovamente intorno al quaranta all’inizio di ottobre. Anche se nelle elezioni di midterm non si elegge il presidente, si tratta di tornate elettorali ugualmente importantissime perché si eleggono non solo tutti i deputati (435) e un terzo dei senatori (34) del congresso federale, ma molti governatori (quest’anno sono 36), così come i segretari di stato (importanti figure che gestiscono le elezioni a livello statale), gli attorney general (procuratori generali che negli stati sono responsabili dell’accusa), e altre figure minori ma ugualmente importanti a livello di contea (sceriffi, tesorieri, ecc.); cui si aggiungono quasi tutte le assemblee elettive degli stati e un gran numero di referendum e petizioni popolari.

Nonostante le elezioni di midterm siano importantissime, gli americani non sembrano rendersene conto. Mentre mediamente il 65 per cento vota nelle elezioni presidenziali poco più del quaranta per cento vota in quelle di midterm. (Di recente queste percentuali sono leggermente aumentate, paradossalmente in conseguenza della accesa polarizzazione e perfino violenta contrapposizione dell’elettorato). Il fatto è che gli americani sono convinti che il loro presidente sia una figura potentissima che, una volta eletto, può e deve realizzare il programma promesso in campagna elettorale.

Ma non è così: nel sistema americano senza l’accordo di entrambi i rami del congresso – cosa che non avviene quasi mai da trent’anni a questa parte – il presidente può fare poco o nulla e non ha neppure gli strumenti per “mettere in riga” i deputati e senatori riottosi, come la minaccia di scioglimento delle camere o il voto di fiducia. Ha a disposizione soltanto gli “ordini esecutivi”, sorta di decreti legge che però possono essere rovesciati dal suo successore (e spesso lo sono). Il risultato è che sono gli elettori a perdere fiducia nel presidente e nel congresso, cosicché nelle elezioni di midterm puniscono entrambi per la loro inattività o semplicemente perché le cose vanno male. Se il presidente aveva la maggioranza in una camera gliela tolgono, così che può fare ancora meno di quel poco che aveva fatto nei due anni precedenti.

Joe Biden in campagna elettorale per i candidati democratici in California
Per questi motivi “storici” in primavera tutti gli analisti davano per scontata la sconfitta dei democratici a novembre. Ma poi nel corso dell’estate Biden aveva messo a segno alcuni provvedimenti per contentare la base elettorale democratica: la riduzione del prezzo dei farmaci (anziani), la cancellazione dei debiti studenteschi (giovani), la depenalizzazione della cannabis (neri e ispanici). A giugno c’era stata anche la sentenza della corte suprema che aveva cancellato il diritto di aborto, suscitando forti proteste di moltissime donne, non solo democratiche. I sondaggi avevano registrato questo cambiamento di umore con uno stacco di dieci punti a favore dei democratici tra le donne e di due punto (46 a 44) tra tutti gli elettori.

Ma non è durato. Ad ottobre le cose sono di nuovo cambiate: il prezzo della benzina è ripreso a salire, mentre l’inflazione, nonostante le previsioni di Biden, rimane a livelli altissimi, la borsa brucia capitali e molti economisti prevedono una recessione a fine anno. Mentre i democratici parlano di diritti (aborto), di limitazione delle armi, di ambiente, di minaccia alla democrazia rappresentata da Trump, i repubblicani parlano di economia, di inflazione, di immigrazione e di criminalità, dando la colpa a Biden e ai democratici per tutto ciò che non va. E la gente li ascolta. E così il pendolo del favore popolare è oscillato di nuovo verso i repubblicani che ora sopravanzano i democratici 49 a 45 per cento.

Il secondo motivo per cui è difficile prevedere come andranno queste elezioni è che non si tratta di elezioni nazionali, ma della somma di 435 elezioni distrettuali (più i senatori e tutte le altre cariche di cui si è detto). È ai singoli distretti e stati che bisogna guardare per capire come andrà. Attualmente i democratici (Dem) hanno una maggioranza di 223 a 212 alla camera mentre sono in parità cinquanta a cinquanta al senato. Ai repubblicani (Rep) basterà conquistare sei seggi per togliere la maggioranza alla camera ai democratici. Le ultime analisi dell’autorevole Cook Political Report dicono che almeno dodici seggi dovrebbero passare dai Dem ai Rep, mentre solo tre dai Rep ai Dem e che dei 31 distretti “in bilico” i Dem dovrebbero conquistarli tutti per mantenere l’attuale maggioranza — cosa abbastanza improbabile. Lo stesso vale per il senato dove basterà che i Rep conquistino uno o due seggi in bilico per ottenere anche lì la maggioranza. Intorno a questi pochi seggi la battaglia al suono di decine di milioni di dollari e di migliaia di spot televisivi si sta facendo cruentissima: il Nevada, la Georgia, la Pennsylvania, il Wisconsin, ma anche l’Arizona e il Colorado, sono i campi di battaglia dove i democratici si giocheranno il tutto per tutto. E con loro il presidente Biden che, una volta persa anche la camera, vedrebbe ogni suo provvedimento bloccato dal congresso.

John Fetterman, candidato democratico al senato in Pennsylvania
Si dirà: ma già adesso con l’attuale esile maggioranza al senato e con l’ostruzionismo che è consentito in quel ramo del congresso, il programma legislativo di Biden era già largamente bloccato. Ed effettivamente è così: anche in caso di sconfitta democratica a livello federale le cose non cambieranno granché; non in meglio perché Biden avrà ancora meno potere, non in peggio perché a mali estremi se i repubblicani volessero approvare leggi a lui sgradite gli rimane sempre il potere di veto e ai Dem, ora in minoranza, il potere di ostruzionismo.

Ci sono però almeno due motivi di seria preoccupazione in caso di vittoria repubblicana. Il primo è che due terzi dei candidati alle elezioni per il congresso sono sostenitori di Trump che negano che Biden sia il presidente legittimo, ma questo non disturba affatto il 71 per cento degli elettori repubblicani e il 37 per cento degli indipendenti che non hanno alcuna difficoltà a votarli. Una vittoria repubblicana vorrebbe quindi dire la quasi certa ricandidatura di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali con ulteriori minacce al già fragile sistema democratico e la sua possibile involuzione autoritaria.

Charlie Crist, candidato democratico a governatore della Florida, contro il potente Ron DeSantis, potente governatore in carica e tra gli aspiranti repubblicani alla Casa bianca nel 2024.
Il secondo motivo ha a che fare con il controllo delle legislature degli stati. Sono gli stati infatti, attraverso il governatore e il segretario dello stato, che organizzano il voto e che nelle elezioni presidenziali possono modificare la lista dei grandi elettori. Oggi 28 governatori su cinquanta sono repubblicani e i Rep controllano completamente trenta parlamenti degli stati contro 17 dei Dem (i restanti tre sono divisi). In questi trenta stati a controllo repubblicano vengono eletti 340 grandi elettori (settanta in più della maggioranza) che a loro volta eleggono il presidente. Se negli stati chiave controllati dai repubblicani il governatore o le assemblee legislative decidessero di cambiare a loro favore la lista dei grandi elettori potrebbero farlo, realizzando così un “colpo di stato” più efficace e meno cruento di quello tentato da Trump nel 2021.

Non solo, gli stati a controllo repubblicano continuerebbero a fare, ancora di più e ancora meglio, quello che già stanno facendo per limitare l’accesso al voto delle minoranze razziali attraverso norme restrittive e attraverso il ridisegno dei distretti elettorali in modo da favorire il proprio partito (gerrymandering). Così fanno anche i democratici, si dirà, ed è vero, ma la differenza sta nel fatto che i Rep governano molti più stati e possono ridisegnare a proprio vantaggio molti più distretti, producendo distorsioni della volontà popolare che potrebbero soltanto aggravarsi in caso di vittoria — purtroppo probabile — repubblicana.

Come ha scritto Steven Levitsky nel suo How Democracies Die gli Stati Uniti stanno diventando sempre più un paese “antimaggioritario”, dove nonostante le elezioni e le libertà democratiche, non è la maggioranza a governare, ma la minoranza.

 

19 Ottobre 2022

 

 

 

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Droga in USA: Biden perdona e si autocritica

DAL MONDO

Il presidente concede la grazia ai condannati per uso di cannabis. Potrebbe anche essere una manovra elettorale. Ma qualcosa smuoverà

di Stefano Rizzo
droga 290 terzogiornale.it minC’è una guerra, tra le tante combattute dagli americani, che dura da più di cinquant’anni. Fu dichiarata nel 1971, dal presidente di allora, Richard Nixon; e in tutti questi anni è costata milioni di vite umane e incalcolabili sofferenze, una volta tanto tutte americane. È la war on drugs, la guerra alla droga. L’avvento, nel 1969, di un presidente repubblicano (e reazionario nel senso più letterale del termine) avrebbe dovuto chiudere, nelle intenzioni sue e di chi lo aveva eletto, la partita con gli anni Sessanta, quelli della contestazione, del movimento dei diritti civili, della protesta contro l’altra guerra, quella vera del Vietnam, della musica rock e, appunto, della “droga”.

Ancora all’inizio del Novecento, “droghe” erano soprattutto l’oppio e la cocaina – ed erano legali. Le fumerie d’oppio, nelle grandi città con quartieri cinesi, erano frequentate da persone di ogni ceto sociale. L’eroina – una nuova invenzione della Bayer – era considerata un farmaco antitosse, e poi usata per combattere la dipendenza da cocaina. Negli anni successivi, iniziò il movimento proibizionista: prima nei confronti della cocaina e dell’oppio, poi, nel 1918, nei confronti di tutti gli alcolici. Nel 1961, entrò in vigore la Convenzione sulle droghe narcotiche, che classificava la cannabis tra le sostanze più pericolose. Nel 1970, Nixon fece approvare una legge contro l’uso degli stupefacenti e nel 1971 lanciò la sua guerra alla droga, con una serie di durissime norme penali per “reprimere e sradicare” il fenomeno come parte della sua più generale guerra contro il crimine, affidando la parte dell’educazione dei giovani alla moglie Pat.

All’epoca, negli anni Settanta, c’era una netta distinzione generazionale e di classe nell’uso delle droghe. La cocaina era usata – considerato il suo costo – soprattutto dai ricchi e dai professionisti, e serviva per lo sballo del fine settimana. I giovani hippy usavano soprattutto la marijuana, “Mary Jane”, importata dal Messico, assieme con le gonne lunghe e i cinturoni con le fibbie d’argento, e con le collanine di vetro. Anni prima un chimico e guru californiano, Timothy Leary, aveva inventato l’Lsd, l’acido lisergico, che prometteva di “aprire la mente” e di entrare in contatto con l’universo attraverso le visioni psichedeliche. Lsd e marijuana erano le droghe dei giovani contestatori; cocaina e oppiacei dell’establishment bianco; eroina e poi crack la droga dei poveracci, bianchi e neri, che ne morivano.

Biden aveva 29 anni quando, nel 1972, fu eletto per la prima volta senatore del suo Stato, il Delaware. La sua base elettorale era costituita da operai e minatori che votavano ancora prevalentemente per il partito democratico, ma avversavano i movimenti di protesta giovanili, e soprattutto erano contro le droghe di ogni tipo. Biden, come molti democratici, aderì fin da subito alla guerra contro la droga di Nixon, facendosi promotore di proposte di legge ancora più restrittive per tutto il corso dei suoi sei mandati senatoriali (trentasei anni). Poi, durante la presidenza di Barack Obama, di cui fu per otto anni vicepresidente, la sua posizione cambiò – e gradualmente prese atto che la guerra alla droga era stata un fallimento: non solo non aveva frenato il fenomeno del consumo, ma l’aveva “combattuto” con risvolti decisamente razzisti, incarcerando soprattutto neri e ispanici, colpendo con durezza il consumo della tutto sommato innocua cannabis, mentre veniva ignorata l’esplosione della letale pandemia di oppioidi sintetici.

Nonostante che, con il passare degli anni, ci si fosse resi conto della scarsa pericolosità della cannabis (minore peraltro dell’uso del tabacco e degli alcolici) e un numero crescente di Stati l’avessero legalizzata per uso ricreativo o medico, la guerra continuò, producendo danni sociali incalcolabili. Nel solo decennio tra il 2000 e il 2010 vennero incarcerati e condannati oltre otto milioni di consumatori, colti a “fumare” o con pochi grammi di sostanza, lasciando una macchia permanente sulla fedina penale, che avrebbe reso difficile trovare lavoro, contrarre un mutuo e perfino votare. Inoltre, le condanne colpivano (e colpiscono) in maniera sproporzionata neri e ispanici, con tutte le storture del sistema giudiziario: un ragazzo bianco, i cui genitori possono permettersi un buon avvocato, viene assolto con una ramanzina; un nero, che ha un difensore d’ufficio, viene mandato in galera per lunghi mesi, o anni, se imputato di spaccio.

Anche Biden si è reso conto di questa profonda ingiustizia, oltre che del fallimento della “guerra dei cinquant’anni”, e ha deciso di “perdonare”, cioè di concedere la grazia, ai condannati per uso di marijuana. L’aveva promesso in campagna elettorale, e se si è deciso soltanto adesso: senza dubbio, l’ha fatto anche nella speranza di trarne qualche vantaggio per le sorti traballanti del suo partito nelle prossime elezioni. È la terza mossa in questo senso negli ultimi due mesi, rivolta a fasce tradizionali dell’elettorato democratico: prima l’intervento per la riduzione del prezzo dei farmaci (anziani), poi la cancellazione dei debiti contratti per le spese universitarie (giovani), ora la depenalizzazione della marijuana e la scarcerazione dei condannati (neri, ispanici, giovani).

In realtà, quest’ultima mossa sulla droga è soprattutto simbolica, dal momento che si applica unicamente a livello federale e nel Distretto di Columbia; ed è stato calcolato che solo 6.500 detenuti nelle carceri federali potrebbero beneficiarne (potrebbero, perché molti vi si trovano anche per altri reati e non verrebbero comunque scarcerati). Nelle prigioni statali, invece, i detenuti per consumo di marijuana sono diverse centinaia di migliaia. È per questo motivo che, nel suo annuncio accorato (e anche implicitamente autocritico), Biden ha invitato i governatori degli Stati a seguire il suo esempio: a liberare i detenuti e a cancellare la macchia sulla loro fedina penale. Ha anche annunciato che il governo federale è impegnato a rivedere la classificazione delle droghe, espungendo la cannabis dal gruppo di quelle più pericolose. (Del resto, già nel 2019, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva invitato gli Stati membri a rivedere la loro legislazione sulla cannabis, riconoscendone la possibile utilità medica.)

È probabile, quindi, che dopo questa decisione, per quanto simbolica, qualcosa si muoverà. Del resto già trentotto Stati su cinquanta consentono l’uso della cannabis a scopo terapeutico, di questi diciannove anche per uso ricreativo. Nonostante i candidati repubblicani alle prossime elezioni abbiano attaccato duramente la decisione del presidente come una mossa “propagandistica e pericolosa”, alcuni recenti sondaggi dicono che il 70% degli americani è favorevole alla liberalizzazione della marijuana, e lo è anche il 50% degli elettori repubblicani. Una volta tanto, sarebbe il caso che l’Europa seguisse l’esempio dell’America.

12 Ottobre 2022 da https://www.terzogiornale.it/

 

 

 

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Corte Suprema USA contro le donne: Pillon gioisce

VIOLENZA CONTRO LE DONNE

Comunicato di Collettivo Ugualmente

Rally June Medical Admin Advocacy reproductiverights.orgLa Corte Suprema (USA ndr) ha emesso la sua decisione nel caso Dobbs vs Jackson Women's Health Organization, rovesciando di fatto la sentenza Roe vs Wade.
Questa gravissima ricaduta sarà ai danni di chi?
Ovviamente sarà ai danni della salute riproduttiva delle donne!!!

E noi non vogliamo e non intendiamo adeguarci a quello che è un pensiero unico e dittatoriale!
Il corpo è nostro!
Ed è nostra la volontà!
La nostra autodeterminazione!

Proviamo rabbia e disgusto alle parole con cui Pillon ha esultato all’indomani della sentenza: "Ho il cuore pieno di gioia".
Ma di quale cuore pieno di gioia stiamo parlano?
Si ha così a cuore la salute e la scelta, sacrosanta, di una donna?
Sappiamo molto bene che laddove è vietato un aborto secondo criteri medici c’è il ricorrere ad uno uso clandestino.
Questo significa cuore?
No,ci spiace questa è violenza!
E non intendiamoci fermarci qui!
Sui nostri corpi decidiamo noi!
Nè lo Stato e nè la Chiesa!

Tutto questo è violenza e tale sentenza ha solo portato alla luce, come molto spesso diamo per scontato ed acquisiti certi diritti, che vanno invece tutelati!
Continueremo a vigilare,questo è certo poiché preferiamo andare sempre in direzione “ostinata e contraria”!

Collettivo Ugualmente (trasmesso da Roberta Cassetti)

 

 

 

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Anche negli USA temevano l'allargamento della NATO

COMMENTI

Le guerre si potrebbero sempre evitare, ma non sempre succede

di Mario Boffo*
NO guerre BlogdelleStelle minQuando scoppia una guerra, scoppia anche la guerra della retorica; e anche nel caso della guerra in Ucraina le parti in conflitto non sono state da meno, sbandierando, secondo lo schieramento, la difesa delle nazionalità o della democrazia, il retaggio della Storia o il diritto dei popoli, il confronto fra sistemi e il raffronto dei rispettivi valori. Tutte cose che hanno certo importanza nei destini umani, ma che nel confronto geopolitico vengono per lo più usati in termini di propaganda. Da sempre, e in varie forme, i paesi in guerra hanno proclamato: “Dio è con noi!”

Nel “territorio geopolitico”, però, paesi e alleanze, compresi quelli che “esportano la democrazia”, non si muovono a difesa di principi o ideali; si muovono piuttosto allo scopo di sostenere il proprio potere strategico, valorizzarlo e difenderlo, perché è sulla base del posizionamento strategico che si possono promuovere gli interessi nazionali o di schieramento, o il relativo modello politico-sociale; elementi che servono a loro volta a progredire, nelle rispettive sfere d’azione, nel controllo o nella partecipazione al controllo delle relazioni internazionali.
Questo non vuol dire che la sfera geopolitica sia un ambiente di brutale e selvaggia affermazione della forza con metodi violenti, anche se purtroppo talvolta è così. L’ambiente geopolitico è stato spesso sede di confronti non guerreggiati, anzi cooperativi, fra schieramenti e paesi a diverso orientamento o semplicemente portatori di differenti interessi strategici. Paradossalmente potremmo affermare che la stessa guerra fredda è stata un contesto entro il quale, nonostante la forte contrapposizione, ma grazie alla deterrenza nucleare, la geopolitica ha evitato il peggio.

Detto questo, e premesso che l’aggressore è sempre da condannare, che Putin è un autocrate che opera anche a sostegno della propria posizione e di proprie motivazioni interne (come tutti, del resto), e che avrebbe forse approfittato di qualsiasi situazione come pretesto per le proprie iniziative, cercare di comprendere come si sia arrivati alla guerra in Ucraina e alla pesantissima minaccia che questa pone alla pace mondiale, non vuol dire perseguire giustificazioni o accuse, né distribuire torti e ragioni, categorie che non hanno luogo in geopolitica. Serve invece a capire i processi che hanno portato a questo e come si sarebbe potuto fare meglio; non certo per criticare o studiare il passato, ma per preparare il futuro.

Propongo volentieri l’articolo di cui al link qui sotto. L’autore è Robert Hunter, che fu Rappresentante Permanente degli Stati Uniti alla NATO fra il 1993 e il 1998, gli anni in cui cominciarono gli allargamenti dell’Alleanza e nei quali sono da identificare i prodromi degli attuali rapporti con la Russia. In quegli stessi anni anche io servivo presso la Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Alleanza Atlantica, come membro del Comitato Politico, e in questa veste ebbi l’opportunità di seguire i temi dell’allargamento e dei rapporti della NATO con la Russia. Hunter, che non può essere certo sospettato di partigianeria pro-russa, illustra nei dettagli come dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia si sia arrivati alla situazione attuale, attraverso successive amministrazioni americane e attraverso gli eventi internazionali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Egli cita anche circostanze in cui la geopolitica ha espresso risultati saggi, piuttosto che bellicosi: la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) e i vari accordi per il controllo degli armamenti che imposero elementi di stabilità fra schieramenti che pure si guardavano in cagnesco. L’autore cita anche la famosa crisi dei missili che Mosca tentò di collocare a Cuba nel 1962 come caso di grande pericolo in cui le parti seppero dimostrare equilibrio e saggezza. Invito a leggere con attenzione l’articolo di Hunter, e al fine di evitare ripetizioni nei concetti in esso espressi, mi limiterò a qualche considerazione aggiuntiva basata sulla mia diretta esperienza di quegli anni.

Quando Michail Gorbačëv sciolse l’Unione Sovietica, e soprattutto il Patto di Varsavia, si pose anche nell’area occidentale il tema della persistente utilità o meno della NATO. L’Alleanza, allora guidata dal Segretario Generale Manfred Wörner, decise di continuare a esistere, identificando altre sfide strategiche da cui dover difendere i paesi membri e avviando l’Euro-Atlantic Partnership Council (EAPC), che comprendeva tutti i paesi dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), e la Partnership for Peace (PFP), un programma di collaborazione e scambi con gli antichi avversari, personalizzato paese per paese, basato su varie forme di cooperazione e omologazione di sistemi, e finalizzato allo stabilimento di mutua fiducia fra paesi un tempo contrapposti. A entrambe le iniziative prese parte anche la Russia, per quanto alla PFP con un proprio schema di cooperazione con la NATO. Benché la PFP fosse anche orientata a possibili future adesioni all’Alleanza dei paesi partner, nulla avrebbe impedito di considerare quest’ipotesi come una semplice petizione di principio, considerato che il programma avrebbe potuto evolversi verso un più ampio e consolidato ambiente di cooperazione per la pace nel quale tutti i precedenti avversari, compresi Stati Uniti e Russia, avrebbero potuto esercitare un ruolo. Gli stati un tempo contrapposti, infatti, si consultavano congiuntamente nell’EAPC, erano tutti membri di un’organizzazione di pace e sicurezza come l’OSCE e coltivavano programmi cooperativi con l’Alleanza.

Alla fine del 1994, invece, gli Stati Uniti imposero una decisa accelerazione: Washington intendeva procedere subito all’allargamento dell’Alleanza, cominciando con Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. I membri europei, preoccupati per le reazioni russe, riuscirono a dilazionare i tempi. Si procedette quindi a uno studio sull’allargamento della NATO inteso a definire le condizioni cui gli aspiranti all’adesione avrebbero dovuto attenersi e si pensò anche alla formulazione di uno schema di rapporti speciali di consultazione e cooperazione con la Russia, inteso a coinvolgere Mosca in un’ampia congerie di temi di sicurezza al fine di prevenirne il possibile senso di isolamento e di emarginazione. Hunter indica bene i vari momenti delle successive ondate di allargamento e dell’evoluzione dei rapporti fra NATO e Russia. Egli indica anche come al momento della riunificazione della Germania Washington abbia assicurato a Mosca, più o meno implicitamente, che nessun altro paese del precedente Patto di Varsavia sarebbe entrato a far parte della NATO, e come questa rassicurazione abbia avuto altri momenti, benché collegata a successive ondate di adesioni che giunsero a riguardare addirittura i Paesi Baltici, che erano stati parte integrante dell’Unione Sovietica. Stando così le cose, nulla avrebbe logicamente impedito anche ad altri paesi, come Ucraina e Georgia, di entrare a un certo punto nell’Alleanza, e questa possibilità – ma soprattutto il modo come ci si sarebbe eventualmente arrivati – ha preoccupato la Russia al punto da portarla agli eventi cui stiamo assistendo.

La NATO, e soprattutto il suo “azionista di maggioranza”, gli Stati Uniti, che hanno vinto la guerra fredda, ottenendo la resa totale della Russia di Gorbačëv, hanno voluto procedere, finché è stato loro possibile, a quanti più avanzamenti possibile nel territorio dell’avversario al fine di consolidare al massimo il proprio vantaggio strategico, tradendo in tal modo anche le precedenti rassicurazioni. A dire il vero, anche se le rassicurazioni non ci fossero state, non sarebbe stato difficile comprendere che certi equilibri forse sorgenti, o almeno tentati, nei primi anni Novanta, si sarebbero rotti con conseguenze ingovernabili. La svolta autoritaria nella Russia di Putin ha forse peggiorato le cose, ma la crisi geopolitica si sarebbe comunque verificata.

Nel desidero di stravincere (perché eravamo alla “fine della Storia”, perché il modello economico neoliberista a guida americana si doveva affermare su tutto il pianeta, perché ci doveva essere un’unica e sola potenza globale…) l’area euro-atlantica ha perso una grande occasione di mettere in equilibrio la propria sicurezza, e quello che è mancato è stata la saggezza dei vincitori: la resa dell’Unione Sovietica e l’avvio delle istituzioni e dei programmi congiunti sopra menzionati avrebbero potuto essere infatti la base per un Europa di pace; l’Alleanza (e gli Stati Uniti) piuttosto che rispondere al desiderio (del resto ampiamente stimolato) di adesione dei paesi ex-satelliti dell’URSS, avrebbero potuto invece coinvolgerli tutti, insieme alla Russia, in un più ampio progetto di sicurezza basato sulla filosofia dell’OSCE e sul riconoscimento di tutti come importanti attori della stabilità mondiale. Perché è pur vero, come viene commentato in questi giorni, che ciascun paese ha diritto a scegliere le proprie alleanze, ma non è certo scritto che le alleanze abbiano il dovere di accettarli. Questi temi furono dibattuti all’interno dell’Alleanza Atlantica, alla ricerca di una nuova architettura di sicurezza, fra paesi ex-satelliti dell’Unione Sovietica che insistevano per l’adesione e gli alleati europei che avrebbero valutato volentieri formule innovative e più inclusive di tutti gli interessi strategici sul terreno. Prevalse però l’orientamento dell’”azionista di maggioranza”, timoroso che una nuova eventuale architettura di sicurezza avrebbe indebolito la NATO, e con essa potere di Washington in Europa.

Quando nel 1866 i prussiani sbaragliarono le forze austro-ungariche a Sadowa, a conclusione della guerra austro-prussiana, Bismarck trattenne i propri generali, che volevano marciare su Vienna, nella convinzione (e nella lungimirante saggezza) che si deve vincere, ma non si deve umiliare l’avversario, perché in tal modo si genera odio e spirito di rivalsa (Germania, unificata dalla Prussia, e Impero Austro-Ungarico, nonostante la guerra precedente, furono poi alleate). Negli stessi anni, il governo degli Stati Uniti offriva continuamente alle nazioni indiane trattati e assicurazioni che venivano regolarmente disattesi, nel perseguimento di una “frontiera” indistinta e sempre più avanzata, nel permanente allargamento del proprio potere e nel conseguente restringimento della sfera avversaria; analogia più che suggestiva con i nostri tempi.

In Europa ora la frittata è fatta. Evocare principi e ideali non serve a niente, e se si vuole preparare la pace dopo questa tragedia ucraina, bisogna riflettere agli errori commessi; tenendo presente che il blocco euro-atlantico non è l’unico centro di potere in Europa; che la Russia pretende, con qualche ragione, garanzie e ruolo; che l’Occidente non è più in grado di sostenere i lutti di una guerra che lo coinvolga direttamente; che una deprecata guerra mondiale contemplerebbe quasi certamente l’uso di armi nucleari; e che la Cina assiste intanto tranquilla al procedere degli eventi.

02/03/2022 - Ucraina. Le guerre si potrebbero sempre evitare, anche se non sempre succede – Transform! Italia (transform-italia.it)
https://transform-italia.it/ucraina-le-guerre-si-potrebbero-sempre-evitare-anche-se-non-sempre-succede/

 

dott. MarioBoffo 400 min*Mario Boffo. Ambasciatore esperto con una comprovata storia di lavoro nel mondo degli affari e nel settore degli affari internazionali. Competente in Relazioni Internazionali, Strategia Aziendale, Analisi delle Politiche, Inglese, Organizzazioni Internazionali e Italiano. Forte professionista della comunità e dei servizi sociali con un Master in Scienze Politiche e Governo presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II".

 

 

 

 

 

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Imminente rivoluzione finanziaria globale: la Russia segue il copione Usa

ECONOMIA VALUTE

Ormai si profila “una nuova valuta internazionale”

Ellen Brown ha scritto un articolo imperdibile che spiega con rara lucidità quale sia la posta in gioco dello scontro in atto tra Russia e Stati Uniti. EllenBrown 360 minSe in Italia esistesse ancora un giornalismo economico (o anche solo un giornalismo), di questo si dovrebbe parlare.
Nessun paese ha sfidato con successo l’egemonia globale del dollaro USA prima d’ora.
L’articolo originale in inglese è nel suo blog e qui di seguito eccone la traduzione.

I critici stranieri hanno sempre stigmatizzato il “privilegio esorbitante” che ha il dollaro USA come valuta di riserva globale. Gli Stati Uniti possono emetterla sostenuti nient’altro che dalla “piena fede e credito degli Stati Uniti“. I governi stranieri, avendo bisogno di dollari, non solo li accettano nel commercio, ma acquistano titoli statunitensi, finanziando efficacemente il governo statunitense e le sue guerre estere.
Ma nessun governo è stato abbastanza potente da rompere quell’accordo fino ad ora. Come è successo e cosa significherà per gli Stati Uniti e le economie globali?

L’ascesa e la caduta del petrodollaro
Innanzitutto, un po’ di storia: il dollaro USA è stato adottato come valuta di riserva globale alla conferenza di Bretton Woods nel 1944, quando il dollaro era ancora sostenuto dall’oro sui mercati globali. L’accordo prevedeva che l’oro e il dollaro sarebbero stati accettati in modo intercambiabile come riserve globali, i dollari sarebbero stati convertibili in oro su richiesta a $ 35 l’oncia. I tassi di cambio di altre valute sono stati fissati rispetto al dollaro.

Ma quell’accordo è stato rotto dopo che la politica “guns and butter” del presidente Lyndon Johnson ha esaurito le casse degli Stati Uniti finanziando sia la guerra in Vietnam che i suoi programmi sociali “Great Society” all’interno. Il presidente francese Charles de Gaulle, sospettando che gli Stati Uniti stessero finendo i soldi, cambiò gran parte dei dollari francesi in oro. Altri paesi seguirono il suo esempio o minacciarono di farlo.

Nel 1971, il presidente Richard Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro in oro a livello internazionale (nota come “chiusura della finestra dell’oro”), al fine di evitare il prosciugamento delle riserve auree statunitensi.
Il valore del dollaro è poi crollato rispetto ad altre valute negli scambi globali. Per sostenere la situazione, Nixon e il Segretario di Stato Henry Kissinger fecero un accordo con l’Arabia Saudita e i paesi OPEC i quali avrebbero venduto petrolio solo in dollari e che tali dollari sarebbero stati depositati nelle banche di Wall Street e della City di Londra. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero difeso militarmente i paesi OPEC.

Il ricercatore economico William Engdahl ha presentato anche le prove di una ‘promessa’ per la quale il prezzo del petrolio avrebbe dovuto quadruplicarsi. Una crisi petrolifera innescata da una breve guerra mediorientale fece quadruplicare il prezzo del petrolio e l’accordo OPEC fu finalizzato nel 1974.
L’accordo è rimasto in essere fino al 2000, quando Saddam Hussein lo ruppe vendendo petrolio iracheno in euro. Il presidente libico Omar Gheddafi seguì l’esempio. Entrambi i presidenti furono assassinati e i loro paesi furono distrutti da una guerra con gli Stati Uniti. Il ricercatore canadese Matthew Ehret osserva:
Non dobbiamo dimenticare che l’alleanza Sudan-Libia-Egitto, sotto la guida combinata di Mubarak, Gheddafi e Bashir, si era mossa per stabilire un nuovo sistema finanziario garantito dall’oro al di fuori del FMI/Banca mondiale per finanziare uno sviluppo su larga scala in Africa.
Se questo programma non fosse stato minato dalla distruzione della Libia guidata dalla NATO, dalla spartizione del Sudan e dal cambio di regime in Egitto, il mondo avrebbe assistito all’emergere di un importante blocco regionale di stati africani che modellava i propri destini al di fuori dei giochitruccati della finanza controllata dagli anglo-americani per la prima volta nella storia.

L’ascesa del PetroRublo
La prima sfida di una grande potenza a quello che divenne noto come il petrodollaro è arrivata nel 2022. Nel mese successivo all’inizio del conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti e gli alleati europei hanno imposto pesanti sanzioni finanziarie alla Russia, in risposta all’invasione militare.

Le misure occidentali includevano il congelamento di quasi la metà dei 640 miliardi di dollari USA di riserve finanziarie della banca centrale russa, l’espulsione di molte delle più grandi banche russe dal sistema di pagamento globale SWIFT, l’imposizione di controlli sulle esportazioni volti a limitare l’accesso della Russia alle tecnologie avanzate, la chiusura del loro spazio aereo e portuale ad aerei e navi russi, oltre a istituire sanzioni personali contro alti funzionari russi e magnati di alto profilo. I russi preoccupati si sono affrettati a ritirare i rubli dalle loro banche e il valore del rublo è precipitato sui mercati globali proprio come il dollaro USA nei primi anni ’70.

Le certezze riposte nel dollaro USA come valuta di riserva globale, sostenuta “dalla piena fiducia e dal credito degli Stati Uniti”, erano state completamente infrante.
Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato, in un discorso del 16 marzo, che gli Stati Uniti e l’UE non hanno rispettato i loro obblighi e che il congelamento delle riserve russe aveva segnato la fine dell’affidabilità dei cosiddetti ‘asset di prima classe’.

Il 23 marzo Putin ha annunciato che il gas naturale russo sarebbe stato venduto a “paesi ostili” solo in rubli russi, anziché in euro o dollari attualmente utilizzati. Quarantotto nazioni sono considerate “ostili” dalla Russia, inclusi Stati Uniti, Gran Bretagna, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, Singapore, Norvegia, Canada e Giappone (e Italia n.d.t.)
Putin ha osservato che più della metà della popolazione mondiale rimane “amica” della Russia. I paesi che non hanno votato per sostenere le sanzioni includono due grandi potenze, Cina e India, insieme al Venezuela, Turchia e altri paesi del “sud globale”. I paesi “amici”, ha detto Putin, ora possono acquistare dalla Russia in varie valute.

Il 24 marzo, il parlamentare russo Pavel Zavalny ha affermato in una conferenza stampa che il gas potrebbe essere venduto in Occidente per rubli o oro e in paesi “amici” per valuta nazionale o bitcoin.

I ministri dell’Energia delle nazioni del G7 hanno respinto la richiesta di Putin, sostenendo che violava i termini del contratto del gas che richiedevano la vendita in euro o dollari. Ma il 28 marzo, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che la Russia “non è impegnata in beneficenza” e non fornirà gas all’Europa gratuitamente (cosa che farebbe se le vendite fossero in euro o dollari che attualmente non può utilizzare nel commercio). Le stesse sanzioni sono una violazione degli accordi sulla disponibilità delle valute sui mercati globali.
Bloomberg riferisce che il 30 marzo Vyacheslav Volodin, presidente della Camera bassa del parlamento russo, ha suggerito in un post su Telegram che la Russia potrebbe ampliare l’elenco delle merci per le quali richiede il pagamento dall’Occidente in rubli (o oro) per includere il grano, petrolio, metalli e altro.

L’economia russa è molto più piccola di quella degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, ma la Russia è un importante fornitore globale di materie prime chiave, inclusi non solo petrolio, gas naturale e cereali, ma anche legname, fertilizzanti, nichel, titanio, palladio, carbone, azoto e metalli delle terre rare utilizzati nella produzione di chip per computer, veicoli elettrici e aeroplani.
Il 2 aprile, il colosso russo del gas Gazprom ha ufficialmente interrotto tutte le consegne in Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europa, un’arteria fondamentale per le forniture energetiche europee.

Il professore di economia britannico Richard Werner definisce la mossa russa intelligente, una replica di ciò che fecero gli Stati Uniti negli anni ’70. Per ottenere materie prime russe, i paesi “ostili” dovranno acquistare rubli, facendo salire il valore del rublo sugli scambi globali proprio come il bisogno di petrodollari sostenne il dollaro USA dopo il 1973. Infatti, entro il 30 marzo, il rublo era già tornato ai livelli di un mese prima.

Una pagina al di fuori della sceneggiatura del “sistema americano”.
La Russia sta seguendo gli Stati Uniti non solo nell’agganciare la sua valuta nazionale alla vendita di un bene fondamentale, ma in un protocollo precedente, quello che i leader americani del 19° secolo chiamavano il “Sistema Americano” di moneta e credito sovrano.
I suoi tre pilastri erano:
(a) sussidi federali per miglioramenti interni e per finanziare le industrie nascenti della nazione;
(b) dazi per proteggere quelle industrie;
(c) credito facile emesso da una banca nazionale.

Michael Hudson, un ricercatore professore di economia e autore tra l’altro di “Super-Imperialism: The Economic Strategy of American Empire”, osserva che le sanzioni stanno costringendo la Russia a fare ciò che è stata riluttante a fare da sola: tagliare la dipendenza dalle importazioni e sviluppare le proprie industrie e infrastrutture. L’effetto, dice, è equivalente a quello dei dazi protettivi.
In un articolo intitolato “The American Empire Self-destructs”, Hudson scrive delle sanzioni russe (che in realtà risalgono al 2014):
La Russia era rimasta affascinata dall’ideologia del libero mercato per adottare misure per proteggere la propria agricoltura o industria. Gli Stati Uniti hanno fornito l’aiuto necessario imponendole l’autosufficienza interna (tramite sanzioni). Quando gli stati baltici hanno perso il mercato russo del formaggio e di altri prodotti agricoli, la Russia ha rapidamente creato il proprio settore caseario mentre diventava il principale esportatore mondiale di cereali…
La Russia sta scoprendo (o è sul punto di scoprirlo) che non ha bisogno di dollari americani come supporto per il tasso di cambio del rublo. La sua banca centrale può creare i rubli necessari per pagare i salari interni e finanziare la formazione di capitale. Le confische statunitensi potrebbero quindi portare la Russia a porre fine alla filosofia monetaria neoliberista, come Sergei Glaziev ha sostenuto a lungo secondo la Modern Monetary Theory …
I politici americani stanno costringendo i paesi stranieri a fare ciò che non hanno avuto il coraggio di fare da loro stessi, cioè a sostituire il FMI, la Banca Mondiale e altre armi della diplomazia statunitense. Invece i paesi dell’Europa, del Vicino Oriente e del Sud del mondo che si non seguono i loro stessi interessi economici a lungo termine, l’America li sta allontanando, come ha fatto con Russia e Cina.

Glazyev e il reset eurasiatico
Sergei Glazyev, menzionato sopra da Hudson, è un ex consigliere del presidente Vladimir Putin e del ministro per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione economica dell’Eurasia, l’organismo di regolamentazione dell’Unione economica eurasiatica (EAEU). Ha proposto di utilizzare strumenti simili a quelli del “Sistema americano”, inclusa la conversione della Banca centrale russa in una “banca nazionale” che emette la propria valuta russa e fornisce credito per lo sviluppo interno. Il 25 febbraio, Glazyev ha pubblicato un’analisi delle sanzioni statunitensi intitolata “Sanctions ande Sovereignty”, in cui affermava:
«[Il] danno causato dalle sanzioni finanziarie statunitensi è indissolubilmente legato alla politica monetaria della Banca di Russia… La sua essenza si riduce a uno stretto legame della questione del rublo con gli utili dell’export e con il tasso di cambio rublo-dollaro. Si crea, infatti, nell’economia un’artificiale penuria di denaro, e la rigida politica della Banca Centrale porta a un aumento del costo dei prestiti, che uccide l’attività imprenditoriale e ostacola lo sviluppo delle infrastrutture nel Paese.»

Glazyev ha affermato che se la banca centrale sostituisse i prestiti in essere con i suoi partner occidentali con prestiti propri, la capacità di credito russa aumenterebbe notevolmente, prevenendo un calo dell’attività economica senza creare inflazione.

La Russia ha accettato di vendere petrolio all’India nella sua valuta sovrana, la rupia; in Cina in yuan; e alla Turchia in lire turche. Queste valute nazionali possono quindi essere spese per i beni e i servizi venduti da quei paesi.

Auspicabilmente, ogni paese dovrebbe essere in grado di commerciare nei mercati globali nella propria valuta sovrana; ecco cos’è una valuta fiat: un mezzo di scambio sostenuto dall’accordo tra le persone come misura del valore dei propri beni e servizi, sostenuto dalla “piena fede e credito” della nazione.
Ma questo tipo di sistema di baratto globale potrebbe crollare, proprio come fanno i sistemi di baratto locali, se una parte del commercio non volesse più i beni o i servizi dell’altra. In tal caso sarebbe necessaria una valuta di riserva intermedia per fungere da mezzo di scambio.

Glazyev e le sue controparti ci stanno lavorando. In un’intervista tradotta pubblicata su The Saker, Glazyev ha dichiarato:
«Attualmente stiamo lavorando a una bozza di accordo internazionale sull’introduzione di una nuova valuta di regolamento mondiale, ancorata alle valute nazionali dei paesi partecipanti e ai beni scambiati che determinano i valori reali. Non avremo bisogno di banche americane ed europee. Nel mondo si sta sviluppando un nuovo sistema di pagamento basato sulle moderne tecnologie digitali con blockchain, dove le banche stanno perdendo importanza.»

Russia e Cina hanno entrambe sviluppato alternative al sistema di messaggistica SWIFT da cui alcune banche russe sono state sospese. Il commentatore londinese Alexander Mercouris fa l’interessante osservazione che uscire dallo SWIFT significa che le banche occidentali non possono tracciare le operazioni russe e cinesi.
L’analista geopolitico Pepe Escobar riassume i piani per un reset finanziario eurasiatico/cinese in un articolo intitolato “Salute all’oro russo e al Petroyuan cinese”. Lui scrive:
«Ci è voluto molto tempo, ma finalmente stanno emergendoalcuni lineamenti chiave delle nuove fondamenta del mondo multipolare».

Venerdì 1 marzo, dopo una riunione in videoconferenza, l’Eurasian Economic Union (EAEU) e la Cina hanno concordato di progettare il meccanismo per un sistema monetario e finanziario internazionale indipendente. L’EAEU, composta da Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia, sta stabilendo accordi di libero scambio con altre nazioni eurasiatiche e si sta progressivamente interconnettendo con la Chinese Belt and Road Initiative (BRI).
A tutti gli effetti pratici, l’idea viene da Sergei Glazyev, il più importante economista indipendente della Russia.
Abbastanza diplomaticamente, Glazyev ha attribuito il concretizzarsi della sua idea alle “comuni sfide e ai rischi associati al rallentamento economico globale e alle misure restrittive contro gli stati dell’EAEU e la Cina”.

Traduzione: poiché la Cina è una potenza eurasiatica tanto quanto la Russia, devono coordinare le loro strategie per aggirare il sistema unipolare degli Stati Uniti.

Il sistema eurasiatico sarà basato su “una nuova valuta internazionale”, molto probabilmente con riferimento allo yuan, calcolato come indice delle valute nazionali dei paesi partecipanti, nonché dei prezzi delle materie prime.
Il sistema eurasiatico è destinato a diventare una seria alternativa al dollaro USA, poiché l’EAEU potrebbe attrarre non solo le nazioni che hanno aderito alla BRI ma anche i principali attori della Shanghai Cooperation Organization (SCO) e dell’ASEAN. Gli attori dell’Asia occidentale, Iran, Iraq, Siria, Libano, saranno inevitabilmente interessati.

Privilegio esorbitante o onere esorbitante?
Se quel sistema avrà successo, quali saranno gli effetti sull’economia statunitense?

La ‘stratega degli investimenti’ Lynn Alden scrive, in un’analisi dettagliata intitolata “The Fraying of the US Global Currency Reserve System”, che ci sarà dolore a breve termine, ma, a lungo termine, la cosa andrà a beneficio dell’economia statunitense.
L’argomento è complicato, ma la linea di fondo è che il predominio del dollaro come valuta di riserva ha portato alla distruzione della nostra base manifatturiera e all’accumulo di un enorme debito federale. La condivisione dell’onere della valuta di riserva avrebbe l’effetto che le sanzioni stanno avendo sull’economia russa: di alimentare le industrie nazionali come farebbero dazi, consentendo la ricostruzione della base manifatturiera americana.

Altri commentatori affermano anche che essere l’unica valuta di riserva globale è più un onere esorbitante che un privilegio esorbitante. La perdita di tale status non porrebbe fine all’importanza del dollaro USA, che è troppo fortemente radicato nella finanza globale per essere rimosso, ma potrebbe significare la fine del petrodollaro come unica valuta di riserva globale e la fine delle devastanti guerre petrolifere finanziate per mantenere il suo dominio.

fonte: https://storiasegreta.com/2022/04/10/limminente-rivoluzione-finanziaria-globale-la-russia-segue-il-copione-americano/
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Noam Chomsky: ''Gli Usa hanno scelto di combattere fino all'ultimo 'ucraino'"

DAL MONDO

Il dissenso in USA alla linea Biden è radicale e con tante motivazioni

noam chomsky guerra ucraina 390 minIl famoso linguista statunitense a confronto con lo scienziato politico Fletcher
“Quando Biden dice che Putin è un criminale di guerra e verrà processato, lo mette al muro: l’unica strada è il suicidio o l’escalation, anche nucleare”.

Questa è l’amara conclusione dell’attivista politico Noam Chomsky, in un botta e risposta con l’attivista e scienziato Bill Fletcher, trasmessa su Real News Network, e riportata da Il Fatto Quotidiano, in cui si sono prese in disamina le cause geopolitiche della guerra in Ucraina e le reciproche responsabilità da parte russa e da parte occidentale.
Il dibattito ha avuto inizio su tre significativi assunti condivisi: la Nato non è un’alleanza difensiva; alla dissoluzione del Patto di Varsavia sarebbe dovuta seguire la dissoluzione della Nato; l’espansione della Nato, in particolare durante le presidenze di Clinton e Bush jr, è stata un errore e una provocazione.

Secondo Chomsky, posto che “l’invasione in sé è un atto criminale di aggressione, un crimine internazionale di suprema gravità”, c’è un principio di destabilizzazione del continente europeo che risale ai primi anni '90, “quando l’Urss collassa e il presidente Usa George Bush senior raggiunge un accordo con il presidente dell’Urss Michail Gorbaciov, un accordo ben definito. Gorbaciov acconsente all’unificazione delle due Germanie e all’ingresso del nuovo Stato nella Nato, che considerato il contesto è una concessione notevolissima, a una condizione che viene ufficializzata: che la Nato non si espanda a est nemmeno di un centimetro”.

Condizione che a partire dal 1994 non verrà rispettata e l’alleanza atlantica avrebbe iniziato ad inglobare gli ex paesi del patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, Croazia e Albania, Montenegro ecc.. Spingendosi fino ai confini della Russia.
Se a questo aggiungiamo il disimpegno degli Stati Uniti dal trattato Abm (sul divieto al dispiegamento di sistemi di difesa missilistica tra Usa e Urss) nel 2001, che ha aperto la strada alla costruzione dei due sistemi Aegis Ashore in Polonia e la proposta di ingresso dell’Ucraina nella Nato, avviata a partire dal summit Nato a Bucarest nel 2008, il quadro di evidente rottura di equilibrio strategico tra le due superpotenze si fa completo.

Chomsky ha menzionato in seguito la rivoluzione arancione di Maidan del 2014, come “istigata dagli Usa” e che ha avuto come conseguenza l’invio da parte degli Stati Uniti di armi e addestramento. A partire da quell’anno Washington avrebbe trasferito a Kiev oltre 4 miliardi di dollari in armamenti, 1,7 miliardi, solo dall’inizio dell’invasione russa del 24 febbraio. Ha riportato poi un indizio molto rilevante che definisce le premesse dell’attuale conflitto, ovvero un “documento ufficiale firmato da Biden nel settembre 2021, ignorato dai media ma non dall’intelligence russa, in cui si finalizza lo Strategic Defence Framework con l’Ucraina; si parla di forniture militari e dell’Ucraina come Enhanced Opportunities Partner della Nato, cioè apre le porte all’ingresso di Kiev nell’Alleanza.”

Chomsky ha poi citato i punti cardine delle proposte russe sulla sicurezza per garantire la pace in Europa, le cui trattative in forma scritta si sono tenute a dicembre dello scorso anno, ma che nei colloqui del 10-12 gennaio, hanno visto un totale diniego da parte statunitense:
“Le richieste russe ufficiali del ministro degli Esteri Lavrov sono sempre state, oltre all’indipendenza del Donbass, la neutralità e la demilitarizzazione, cioè la rimozione delle armi che minacciano la sicurezza russa. Uno status simile a quello del Messico rispetto agli Stati Uniti, che di fatto non può aderire ad accordi militari con la Cina. La proposta Lavrov poteva funzionare? Non lo sapremo mai, perché non è stata presa in considerazione”.

Secondo Fletcher le richieste russe sarebbero irrilevanti, poiché nel 1994 con il memorandum di Budapest, l’Ucraina aveva rinunciato al suo arsenale nucleare in cambio della promessa russa di non aggressione; dimenticando tuttavia di citare il fatto che il 19 febbraio, 5 giorni prima dell’attacco il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva annunciato di voler riconvocare i partecipanti al Memorandum per ridiscutere sullo status non nucleare del paese.

Secondo Fletcher la Russia vuole rendere illegittimamente l’Ucraino uno stato satellite, ma per Chomsky nelle richieste russe c’è la condizione sine qua non per garantire la pace tra due superpotenze: cita il caso del Messico, dell’Austria o la Finlandia. Neutrali, con l’obbligo di non aderire a una organizzazione militare ostile.
In conclusione posto che “In Ucraina, la Russia sta commettendo crimini da tribunale di Norimberga... gli Stati Uniti violano trattati internazionali con l’abuso della forza”.
Secondo Chomsky gli Stati Uniti “hanno scelto di combattere fino all’ultimo ucraino”, ovvero di “abbandonare ogni speranza di un accordo” e “tutto questo si poteva provare a evitare e si potrebbe ancora”.

 

fonte: https://www.antimafiaduemila.com/
09 Aprile 2022

 

 

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Amazon: Lavoratori usa e getta

 

Solidarietà del Partito Comunista ai lavoratori assunti e poi licenziati da Amazon.

Amazon 360 minSolidarietà del Partito Comunista ai lavoratori assunti e poi licenziati da Amazon.
La mattina del 5 luglio il Partito Comunista ha incontrato una delegazione di ex lavoratori Amazon che manifestavano davanti al polo logistico di Colleferro per denunciare il ricorso dell'azienda all'uso sfrenato di lavoratori precari, utPartitoComunistaFrosinone 250 minilizzati per uno, due mesi nel polo logistico con la promessa che allo scadere del contratto sarebbero stati assunti a tempo indeterminato i cui contratti invece non sono stati riconfermati, per assumere dopo poco tempo altri precari in particolare lavoratori svantaggiati. È ora di finirla con questa macelleria sociale, è ora di finirla di utilizzare i lavoratori come merce. Dove sono le istituzioni?

 

 

 

 

 

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USA: 20 gennaio sarà “giornata nazionale di unità”

Dal Mondo. Gli USA

Non ha perso tempo Joe Biden a fare atti per certi versi eclatanti

di Elia Fiorillo
trump donald 350 260No, non l’aveva nemmeno lontanamente immaginato che dopo il primo mandato potesse essere sfrattato dalla “sua” Casa Bianca. A parte che nessuno in sua presenza si sarebbe potuto permettere di ipotizzare cose del genere. O dargli consigli su come muoversi, su quali azioni politiche intraprendere; su quali messaggi non twittare. Ma ammesso che qualcuno avesse lontanamente perseguito una simile idea per aiutarlo, per consigliarlo, un “vaffa”, come minimo, sarebbe stata la sua risposta feroce, intransigente. Ovviamente con un licenziamento in tronco, se si fosse trattato di un dipendente o anche di un amico. No, Donald Trump nel suo ego smisurato non prendeva proprio in considerazione che un concorrente potesse sedersi al suo posto nello “Studio Ovale” E chi meglio di lui, Donald, poteva far uscire l’America, e non solo, dalla congiuntura negativa che era piombata sul mondo a causa del Covid?

Non ha perso tempo Joe Biden, il 46esimo presidente americano, appena insediato, a fare atti per certi versi eclatanti. Ha proclamato il 20 gennaio, giorno del suo insediamento, “giornata nazionale di unità”, invitando gli americani “a unirsi e a scrivere il prossimo capitolo della storia della nostra democrazia, una storia di decoro e dignità, di amore e di riconciliazione, di grandezza e di virtù”. Quest’invito al popolo americano sembra proprio un atto d’accusa per il suo predecessore che in fatto di decoro e dignità, di amore e riconciliazione, di grandezza e virtù ha lasciato molto a desiderare.

Donald, nella convinzione di brogli a favore di Biden che lo avrebbero penalizzato, non ha voluto partecipare all’insediamento del suo successore, né ha voluto seguire la prassi dei suoi predecessori usciti dalla Casa Bianca con sorrisi ed incitamenti al nuovo “inquilino”. “Se lo facesse da solo l’insediamento nella mia Casa Bianca”, ha pensato dal primo momento.

Appena entrato nello studio Ovale il neopresidente ha firmato 15 ordini esecutivi che il suo predecessore nemmeno in sogno avrebbe accettato. Tra i provvedimenti la revoca del Travel ban nei confronti di alcuni paesi a maggioranza mussulmana. Poi l’obbligo di indossare la mascherina all’interno degli edifici federali e il provvedimento per mettere fine alla dichiarazione di emergenza utilizzata da Trump per reperire i fondi con i quali costruire il muro al confine con il Messico. Insomma, un volta pagina totale, senza precedenti.

Si può ben immaginare l’ira dell’ex presidente nel vedere in TV Biden sorridere e piangere mentre è nominato nuovo presidente degli States. Lui, l’ex presidente, s’illude di poter rimettere i piedi da padrone nello Studio Ovale, ma sembra proprio un’allucinazione.

“È certo che Trump non riceverà il Nobel per la Pace, ma adesso entrerà nel Guinness dei primati come unico presidente finito sotto impeachment per ben due volte”. L’ha dichiarato Michael Cohen, ex avvocato di Trump, che ha scontato una pena in una prigione federale per aver comprato il silenzio di due donne coinvolte in relazioni extraconiugali con l’ex presidente.
“L’eredità di Trump includerà: l’amministrazione più corrotta nella storia americana, un massiccio trasferimento di decisioni politiche alle società di capitali, un razzismo e una xenofobia anti-immigranti mai così palesi e aggressivi in qualsiasi altra amministrazione dei nostri giorni….” Lo dichiara Robert Weissman, presidente del gruppo liberale Public Citizen.

Certo, l’America patria della democrazia come l’ha sempre vista il mondo intero non si meritava un personaggio come Donald Trump. Ma è una “storia” da tenere sempre in mente per chi crede veramente nella sovranità popolare.

I soldi possono comprare tutto? La brutta storia di Trump c’insegna che bisogna puntare in politica sulla formazione dei cittadini. Nel loro coinvolgimento nelle azioni politiche. Finché la politica verrà considerata dal popolo come qualcosa che non gli appartiene, tutto può succedere e i vari Trump nel mondo prospereranno.

C’è bisogno che i cittadini già da giovani vengano formati alla politica, non all’appartenenza a questo o quel partito. La scuola in questo campo dovrebbe impegnarsi molto, ma anche le tante associazioni non partitiche che vogliono il bene del Paese.

Finché non riusciremo a dare ai cittadini una coscienza politica, finché la politica, e chi la pratica, sarà vista come qualcosa di truffaldino, di non corretto e via dicendo, i pericoli per la tenuta democratica del Paese sono tanti.

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Stati Uniti. Una legge elettorale da cambiare

Dal Mondo. Gli USA

Se il voto è a suffragio universale tutti i cittadini siano nelle liste elettorali

di Aldo Pirone
JoeBiden e KamalaHarris 390 minIeri, finalmente, si è insediato il nuovo Presidente degli Stati Uniti Jo Biden. I giorni trascorsi dalla sua elezione non sono stati facili per la democrazia americana. L’azione eversiva promossa da Trump il 6 gennaio è stata condannata da quasi tutte le parti in patria e all’estero. Che potesse succedere un assalto al Campidoglio di Washington da parte degli ultra sostenitori del Presidente in carica, alcuni armati di tutto punto, era più che prevedibile. Lui, Trump, li ha chiamati nella capitale per “dare – ha detto - l’orgoglio necessario ai repubblicani più deboli per riprendersi il paese” e lui, nel suo folle comizio, li ha incitati ad andare alla sede del Congresso - “stiamo per incamminarci su Pennsylvania Avenue” ha sollecitato - per costringere i repubblicani renitenti, senatori e deputati, e lo stesso vicepresidente Pence a fare quello che lui voleva: rimettere in discussione il chiaro risultato del voto. Si deve alla scaltrezza dei commessi e delle commesse del Senato che le hanno prontamente messe in salvo se le schede del collegio elettorale giunte dagli Stati non sono state distrutte dagli invasori trumpiani e il Congresso ha potuto procedere, poi, alla certificazione della vittoria di Biden. Non a caso la Camera dei rappresentanti ha votato lo scorso 13 gennaio l’impeachment per Trump con l’assenso anche di 10 repubblicani.

L’attacco sbracato nelle fogge e nei comportamenti degli aficionados trumpiani, ma golpista e per nulla folkloristico essendo costato cinque morti, ha confermato urbi et orbi che Trump è un gran mascalzone fascistoide pronto a tutto pur di non riconoscere un risultato elettorale chiaro e lampante a suo sfavore. Biden, infatti, a novembre ha ottenuto 81.268.586 voti (51,4%) e Trump 74.215.875 (46,9). La percentuale per Biden è salita al 56,9% e quella di Trump scesa al 43,1% se si considerano i voti elettorali degli Stati: 306 contro 232. Biden ha ottenuto circa 7 milioni di voti popolari in più dell’incendiario Tycoon platinato.

Sulle ragioni e sui limiti della vittoria democratica si sono lette in questi mesi molte analisi; alcune oggettive, altre meno, soprattutto in Italia, perché volte a riproporre la tiritera del “si vince al centro” come ricetta, contro ogni evidenza, anche per la nostra malmessa sinistra. La questione su cui meno si sta discutendo, è che la vicenda elettorale statunitense ha messo in evidenza i limiti e le contraddizioni anacronistiche di una legge elettorale poco democratica che va cambiata se si vuole che la democrazia americana possa dispiegarsi pienamente e inclusivamente. La storia per conquistare il diritto di voto in America è lunga e si confonde con le fasi di avanzata e regressione della democrazia americana a iniziare dalla sua fondazione. E’ una storia drammatica che è costata lacrime e sangue alle minoranze escluse, innanzitutto a quella afroamericana.

Vediamone i punti principali da modificare.
Primo. La legge dovrebbe essere federale senza interferenze da parte degli Stati a dominanza repubblicana, soprattutto nel Sud, che adottano i più svariati pretesti e le più incredibili disposizioni per negare il voto ai poveri, ai neri e alle altre minoranze etniche e sociali: dai documenti di riconoscimento ai cavilli sul domicilio, dalle prove di alfabetizzazione al ridisegno delle circoscrizioni elettorali da parte delle amministrazioni repubblicane a favore del loro partito e alla riduzione dei seggi delle votazioni. In Texas ci volevano ben sette documenti per votare e il governatore repubblicano Greg Abbot aveva ridotto nella Contea di Harris i seggi da 14 a 1 per il voto anticipato di quattro milioni di elettori. Poi ha dovuto fare marcia indietro. A purgare le liste elettorali dagli elettori indesiderati provvedono in molti Stati, specialmente repubblicani, apposite commissioni che cancellano con i più vari pretesti centinaia di migliaia di elettori in maggioranza democratici. In Georgia, per esempio, alle elezioni federali del 2018, l'allora Segretario di Stato repubblicano Brian Kemp – diventato governatore proprio in quelle elezioni – aveva estromesso dai registri 500 mila cittadini per non essersi recate alle urne nelle due precedenti elezioni secondo il motto “Use it, or lose it”, usalo o perdilo. A cambiare le cose è stata la mobilitazione delle minoranze per l’iscrizione nelle liste elettorali promossa dalla nera Stacey Abrams, sconfitta da Kemp nel 2018. Grazie a lei non solo Biden ha conquistato la Georgia ma anche il Senato con l’elezione di due senatori democratici in rappresentanza di quello Stato portando a 50 i seggi dei democratici.

Secondo. Il diritto di voto non dovrebbe essere più legato alla volontaria iscrizione alle liste elettorali ma esercitabile al compimento dei 18 anni di età da parte di ogni cittadino americano, salvo le poche eccezioni legate a detenzioni per gravissimi reati. Il diritto al voto va pienamente inteso in democrazia come un diritto umano naturale riconosciuto in quanto tale. L’esclusione dal voto della minoranza nera è stata la principale concessione che, dopo la vittoria nella guerra civile, l’Unione fece agli stati sudisti ex confederati consentendo loro di praticare una sistematica discriminazione e segregazione razziale anche dopo la sconfitta del nazifascismo di cui gli Usa furono protagonisti. Molti neri americani combatterono in Europa per quella libertà che, per molti aspetti proprio a cominciare dal diritto di voto, veniva loro sostanzialmente negata in patria.

Terzo. Si può mantenere il sistema dei grandi elettori di ogni singolo Stato ma dovrebbe essere proporzionale ai voti ottenuti dai partiti in lizza e non più maggioritario con l’assegnazione di tutti i Grandi Elettori al candidato arrivato primo in quel determinato Stato. Inoltre andrebbe periodicamente rivisto a livello federale il numero di Grandi Elettori in rapporto alla popolazione per equilibrarlo più congruamente pur garantendo un peso agli Stati meno popolosi e più rurali. Oggi il rapporto è molto squilibrato. Il Wyoming con meno di seicentomila abitanti ha 3 voti elettorali rispetto alla California che ne ha 55 con 37 milioni di abitanti. In sostanza si tratta di far concordare il voto popolare con quello dei grandi elettori cui non va consentito di cambiare il mandato ricevuto. E’ il popolo degli Stati Uniti a eleggere il Presidente non gli Stati federati.

Infine, da ultimo ma non per ultimo, la data dell’insediamento. Il Presidente eletto fino al primo insediamento di Roosevelt nel 1933 prendeva possesso dei suoi poteri il 4 marzo. Addirittura cinque mesi dopo la sua elezione. Poi, con il 20esimo emendamento votato nello stesso anno, la data fu portata al 20 gennaio a partire dal 1937. Cioè, circa due mesi e mezzo dopo le elezioni. Un tempo eccessivo in cui finora non era successo niente, ma che l’attacco eversivo di Trump ha sfruttato ampiamente mostrandone il pericoloso anacronismo. Sono tempi che vanno accorciati. Un mese può bastare perché il Presidente degli Stati Uniti eletto da tutto il popolo americano possa iniziare a governare.

 

malacoda 75

Aldo Pirone, redattore di malacoda.it

 

 

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La sfida di Trump alle istituzioni democratiche USA

Cronache&Commenti

 Considerazioni sui fatti di Washington

di Giovanni Morsillo
scontrivoluti da Trump 2 390 minPrima di farci intossicare da pseudo-analisi dei soliti informati del giorno dopo vorremmo avanzare qualche considerazione sui fatti di Washington.

Intanto rigettiamo la semplificazione che considera questi avvenimenti come un "caso", non solo nel senso di casualità ma, e soprattutto, come fenomeno da considerarsi come evento, come episodio unico per quanto "spiacevole".

Da tempo andiamo riflettendo sulla questione democratica e della crisi valoriale e applicativa che la democrazia borghese affronta da decenni. Naturalmente non vi è in giro molta voglia di discutere dei fondamenti di questa crisi, essendo assai meno impegnativo derubricare la questione a responsabilità del nazionalista di turno. Gli aggettivi sostantivati si sprecano, e non a caso molti di questi sono neologismi coniati dagli stessi soggetti che giorno dopo giorno smontano gli istituti e i concetti democratici: sovranisti, populisti, nazionalisti, razzisti, fondamentalisti e via sciorinando in fotocopia concetti semplici, che proprio perché semplici e rozzi non consentono di comprendere l'effettiva portata e gli aspetti storici del fenomeno.

Perché di fenomeno si tratta, di processo storico, non di accadimenti episodici dovuti a soggetti certamente discutibili. Che esistono e si rafforzano, complice anche la progressiva trasformazione della politica democratica in banale preoccupazione amministrativa con un occhio elegante ai diritti civili (ma questo è un altro capitolo). Citiamo per tutti, ma la letteratura è ampia, il bellissimo reportage di Adrienne LaFrance sul giornale statunitense The Atlantic riportato per i lettori italiani da Internazionale dell'11 settembre 2020 nel quale si guarda dentro organizzazioni come Qanon, convinte che il mondo sia in mano ad una cricca sionista, comunista, miliardaria e pedofila, in un fritto misto che costituisce il fertile terreno di propaganda di soggetti surreali come D. J. Trump.

Ma il punto non è nemmeno l'esistenza di tali organizzazioni. Da sempre gli Stati Uniti non solo hanno coltivato al loro interno organizzazioni anti istituzionali e reazionarie, dal Ku-Klux-Klan ai Tea Party, passando per tutto ciò che c'è in mezzo. Certo preoccupa il loro avanzare sul terreno dell'iniziativa e dei consensi (74 milioni di cittadini hanno votato per Trump). Ma essi sono un effetto della crisi democratica, non la causa. Un effetto capace, a lungo andare, di logorare progressivamente Istituzioni e princìpi, ma come strumento, non come motore della crisi.

La democrazia che conosciamo, impropriamente detta "liberale" con un'acrobazia da contorsionisti visto che l'idea democratica nasce con Rousseau e quella liberale con Locke, è l'evoluzione storicamente determinata del modo di organizzare la società secondo gli interessi della borghesia produttiva (Rivoluzione francese), che come ovvio ha subìto e prodotto mutamenti anche radicali del suscontrimvoluti da Trump 390 mino stesso modo di esercitarsi nel corso della sua lunga progressione.

Essa risponde agli interessi che la classe imprenditoriale (produttiva, commerciale, finanziaria) ha coltivato dalla sua formazione in poi, e per questo si è determinata secondo il modificarsi delle condizioni stesse di produzione e scambio, concedendo ai cosiddetti cittadini-consumatori gli spazi minimi di soggettività sociale (quella che chiamiamo di volta in volta libertà, autodeterminazione, rappresentanza, partecipazione ecc.) per ottenere il loro consenso.

Questo finché fosse necessario. Oggi non è più così, e non certo perché lo vogliono strani individui come Trump, Erdogan, Putin ecc. (l'elenco sarebbe lungo, ma sempre di individui si tratta), ma per il nuovo mutamento delle condizioni stesse di esercizio degli interessi dominanti. Nessun complotto, soltanto nuove forme di produzione e accentramento della ricchezza che portano con sé, strutturalmente, la necessità di cambiamento dell'organizzazione di quello che, con qualche superficialità, chiamiamo società.

Se il modo di produrre e distribuire ricchezza del modello industriale necessitava del consenso, il livello ulteriore, quello finanziario non solo può farne a meno, ma lo vive come un impaccio, pertanto dove questo modello si afferma le Istituzioni ed i valori democratici finiscono fuori corso. Non a caso mentre ci si stracciano le vesti per la compressione della democrazia (borghese, sia chiaro) a Hong-Kong o in Turchia, si afferma l'obsolescenza dei parlamenti e delle assemblee rappresentative nel famigerato "Occidente".

Non è solo qualche frase detta da imprenditori della politica nostrana (Casaleggio jr., Bonomi, ecc.) a fare da spia del fenomeno in casa nostra. Abbiamo già espresso a suo tempo considerazioni in tal senso riguardo l'abolizione del voto per le Province, vere e proprie prove tecniche di cancellazione degli elettori (del consenso) e di pratica della nomina autoreferenziale dei poteri burocratici. Ma non è difficile ampliare lo sguardo registrando, ad esempio, il mancato rafforzamento delle Istituzioni europee in chiave di unione effettiva della rappresentanza e degli interessi nei processi decisionali, lo svuotamento progressivo dei poteri delle Assemblee trasferiti agli esecutivi, la legiferazione per decreto e non per legge, ecc.

Insistiamo, pertanto, nel sostenere che Trump, per quanto ingombrante e nocivo, non è il protagonista di quanto accade, ma il risultato di quanto in movimento nell'ennesima ristrutturazione capitalistica. Le nuove dinamiche rese possibili dall'uso di classe delle nuove tecnologie e dalla gestione della globalizzazione stanno producendo lo sgretolamento dell'assetto nato dalla fine degli Imperi centrali europei per esaurimento della loro funzione storica. Ma forse sarà il caso di valutare il fatto che per costruire il nuovo assetto funzionale allo stato dell'economia, sono state combattute ben due guerre mondiali.

Nel nostro piccolo abbiamo promosso, negli anni, moltissime occasioni di riflessione su questi temi, ma non pretendiamo certo di aver compreso tutto e, soprattutto, di poter spostare la situazione concreta. Pensiamo però che le nostre ragioni, insieme e confrontate con quelle di altri possano servire almeno come strumento per orientare chi, anche inconsapevolmente, possa simpatizzare con politiche reazionarie in grado di produrre gli spettacoli politicamente terrificanti che gli amici di Trump hanno allestito a Washington.

Crediamo quindi necessario profondere ogni sforzo per relazionarci con chiunque abbia cose serie da dire e da fare in questa direzione, consapevoli del nostro ruolo e dei limiti della nostra forza, di farlo pubblicamente e di assumerci l'onere di sfidare la politica su questi terreni, prima e più che su quelli più immediati.

 

 

 

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